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L’India trova un missile cinese (integro) in un campo. E ora se lo studia “Reverse engineering”
Un missile cinese di punta, sparato dal Pakistan, cade intatto in India dopo aver fallito il bersaglio. Ora Nuova Delhi sta copiando i suoi segreti tecnologici, in particolare il radar AESA, per potenziare il proprio missile Astra Mark-2

La breve guerra di 87 ore tra India e Pakistan dello scorso maggio, denominata “Operazione Sindoor“, ha avuto strascichi inaspettati. Oltre al bilancio militare, ha lasciato sul terreno un “regalo” tecnologico di prima scelta per Nuova Delhi: un missile cinese BVRAAM (Beyond Visual Range Air-to-Air Missile) PL-15E, recuperato quasi perfettamente integro in un campo vicino a Hoshiarpur, nel Punjab.
Un missile di punta, considerato il rivale cinese del Meteor europeo, sparato da un caccia pakistano (probabilmente un JF-17 o un J-10C, entrambi di fornitura cinese) che, semplicemente, non ha funzionato Non ha colpito il bersaglio ed è atterrato a 100 km dentro il territorio indiano, ad esaurimento del carburante.
La beffa, per Pechino e Islamabad, è doppia. Non solo l’arma non ha funzionato, ma non si è nemmeno attivato il meccanismo di autodistruzione. Questo dispositivo è standard su tutti i missili (cinesi, occidentali e indiani) proprio per evitare che, in caso di fallimento, il nemico possa metterci le mani sopra. A quanto pare, la versione da esportazione del PL-15 ne è priva. Un dettaglio che ora costa caro.
Un colpo gobbo d’intelligence per DRDO
Per l’India si tratta di un “colpo d’intelligence”, come definito da alcuni analisti. Il missile è ora nelle mani del DRDO (Defence Research and Development Organisation), l’ente statale per la ricerca e sviluppo della difesa, che lo sta meticolosamente smontando.
L’obiettivo non è solo capire come creare contromisure efficaci, ma, molto più pragmaticamente, fare del buon vecchio reverse engineering. I tecnici indiani sono particolarmente interessati ad alcuni componenti chiave che Pechino ha miniaturizzato con successo:
- Il seeker AESA: Il sensore di ricerca radar miniaturizzato ad array attivo a scansione elettronica (AESA), una tecnologia che l’India sta ancora affinando per i propri missili.
- Il motore a doppio impulso: Un sistema di propulsione avanzato che permette al missile di mantenere velocità elevate (oltre Mach 5) anche nella fase terminale dell’ingaggio. Dall’immagine la propulsione sembra intatta. m
- Le capacità anti-jamming: Come il missile resiste alle contromisure elettroniche.
Secondo quanto riferito, non solo l’India è interessata. Anche Francia, Giappone e Stati Uniti avrebbero già espresso interesse per dare “un’occhiata” ai segreti del PL-15. Sicuramente ci sarà una specie di corsa internazionale a collaborare con il DRDO per vedere qualcosa di questa arma piuttosto rara fuori dalla Cina.
La politica industriale indiana: l’Astra Mark-2
L’analisi del PL-15 non rimane un esercizio teorico. Il DRDO intende utilizzare le informazioni acquisite per accelerare lo sviluppo del proprio missile indigeno, l’Astra Mark-2.
L’India, che durante l’Operazione Sindoor ha impiegato con successo i propri missili BrahMos (sviluppati con la Russia), sta spingendo forte sulla produzione nazionale. L’Astra Mark-1, già in servizio, ha una gittata di circa 100 km. Il Mark-2, grazie anche alle “ispirazioni” cinesi, punta a superare i 200 km, dotandosi di propulsione e capacità di acquisizione del bersaglio superiori.
Questo progetto, in attesa dell’approvazione finale del Ministero della Difesa, è un esempio della strategia indiana di collaborazione pubblico-privato: la linea di produzione principale sarà gestita dall’azienda statale Bharat Dynamics Limited (BDL), affiancata da colossi privati come Larsen & Toubro e Tata Advanced Systems.
Una corsa agli armamenti in accelerazione
Il ritrovamento del PL-15 si inserisce in una più ampia corsa al riarmo nella regione. Il Pakistan, nonostante la figuraccia del missile, non sta a guardare e punta ad acquisire dalla Cina i missili PL-17 (con gittata dichiarata di 400 km) e forse i caccia stealth J-35.
L’India risponde su più fronti: oltre a sviluppare la versione Extended Range del BrahMos (fino a 800 km), ha dato il via libera all’acquisto di altri 114 Rafale e ha stanziato circa 1,05 lakh crore (oltre 12 miliardi di euro) per nuove forniture militari, quasi tutte da fonti indigene.
Il fallimento di un singolo missile cinese potrebbe, paradossalmente, aver dato a Nuova Delhi la spinta tecnologica che cercava per garantirsi la supremazia aerea nel subcontinente.
Domande e Risposte (Q&A)
1) Perché il recupero di questo missile integro è così importante per l’India?
È fondamentale perché, a differenza dei frammenti, un missile intatto permette il reverse engineering completo. L’India può analizzare non solo i materiali, ma anche il design del radar AESA, la composizione chimica del propellente solido e il software di guida. L’assenza del meccanismo di autodistruzione sul PL-15E (versione export) è stata un grave errore di valutazione cinese, che ora fornisce all’India e ai suoi alleati occidentali un accesso senza precedenti alla tecnologia militare di Pechino.
2) Cosa cerca esattamente l’India nel PL-15?
L’India cerca soprattutto la tecnologia del “seeker” (sensore di ricerca) AESA. Si tratta di un mini-radar montato sulla testa del missile, molto difficile da disturbare (jamming) e molto preciso. Sebbene l’India stia sviluppando i propri seeker AESA, esaminare un modello rivale già operativo permette di confrontare le soluzioni ingegneristiche, capire i processi produttivi cinesi e, potenzialmente, copiare le soluzioni più efficaci per risparmiare anni di ricerca e sviluppo sul proprio programma missilistico Astra.
3) Questo missile ha fallito. Significa che le armi cinesi sono tecnologicamente inferiori?
Non necessariamente, ma è un campanello d’allarme sulla loro “maturità”. Come notato da esperti militari, il fatto che non si sia autodistrutto suggerisce che l’arma potrebbe avere problemi di affidabilità, specialmente nelle versioni destinate all’esportazione (che sono spesso, ma non sempre, meno performanti di quelle usate dalla nazione produttrice). Indica che, sebbene la Cina faccia passi da gigante sulla carta, l’affidabilità sul campo di battaglia delle sue armi più moderne non è ancora scontata come quella dei sistemi occidentali o russi con decenni di impiego operativo.

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