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L’ESPROPRIO DELLA PRODUTTIVITA’ AI DANNI DEI LAVORATORI NELL’ITALIA DEL GOVERNO DELLE “SINISTRE” di Luigi Luccarini.

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Lo spunto per questa riflessione proviene dalla lettura di un’analisi pubblicata di recente da Natixis, una banca d’affari francese, secondo cui in Italia sarebbe impossibile aumentare il potere d’acquisto delle famiglie, nonostante negli ultimi 20 anni sia rimasto praticamente fermo per effetto della dinamica dei salari reali (media: +0,2% annuo) e del reddito disponibile reale (media: +0,1% annuo).

L’assunto di Natixis è che la bassa crescita della produttività (media: 0,3% annuo), che incide sulla competitività dei costi di produzione, danneggiando gli indici di penetrazione delle nostre merci nel mercato globale, ha reso necessaria una moderazione salariale che dovrebbe proseguire ancora per qualche anno, almeno in base a quanto vuol farci notare con il grafico figura 1.

 

(figura 1)

Natixis giunge alla medesima conclusione per la Francia, seppure nel paese transalpino le cose vadano leggermente meglio: +1,2% l’aumento medio dei salari reali e del reddito disponibile delle famiglie, a fronte di uno 0,7% di guadagno annuale di produttività.

E’ ovvio il carattere più che altro politico di una simile valutazione, che può servire come stampella per la manovra economica di Macron (che sta meditando un taglio delle tasse in favore delle imprese tre volte superiore rispetto a quello previsto per le famiglie e di affrontare le proteste popolari a colpi di lacrimogeni) ma anche  – non v’è dubbio – per far valere l’insostenibilità in Italia di qualsiasi ipotesi di reflazione salariale, meno che mai di una (anche solo parziale) redistribuzione del reddito in favore della classe lavoratrice.

La logica del ragionamento è che tanto in Italia quanto in Francia sono i lavoratori che devono sopportare i costi della crisi perché quest’ultima origina più che altro da loro bassi livelli di produttività.

Il punto è però che quello della produttività sta diventando l’ennesimo tormentone del periodo, in cui il passaggio dall’equivoco sulle sue valutazioni alla vera e propria mistificazione del concetto appare molto sottile..

Di produttività si parla, ormai quasi per convenzione, con riferimento al solo input della prestazione del lavoratore ed al relativo costo orario, quasi si trattasse dell’unico fattore che contribuisca al valore aggiunto realizzato al termine del processo produttivo.

In realtà, trattandosi di un rapporto tra la quantità di output e la media ponderata degli input utilizzati, si deve guardare al grado di efficienza con cui tutti i fattori di produzione (quindi anche il capitale) sono associati per produrre beni e servizi.

Dobbiamo perciò prendere in considerazione la Total Factor Productivity (TFP) o produttività totale dei fattori, di cui ISTAT ci ha di recente offerto un quadro evolutivo rappresentato dal grafico figura 2.

 

(figura 2)

Da cui sembra subito evincersi che in Italia gli incrementi della produttività si sono quasi sempre realizzati per effetto preponderante della componente “lavoro”, anche in periodi di diminuzione dell’output complessivo.

In particolare ISTAT evidenzia che nel periodo 2003-2015 la produttività del lavoro è cresciuta soltanto dello 0,3% in media, ma all’interno di un contesto economico caratterizzato da una tendenza alla discesa sia del valore aggiunto, sia delle ore lavorate (rispettivamente -0,1 e -0,4%).

Peraltro la fase più recente (2009/2015) ha fatto registrare, accanto ad un valore ancora negativo dell’output, associato ad un calo più marcato dell’input di lavoro (-0,9%) una crescita in media dello 0,8% all’anno.

Nel 2016 la produttività è rimasta quasi invariata (-0,1%) quale risultato di aumenti sostenuti tanto del valore aggiunto che delle ore lavorate (+1,9% per entrambe le variabili).

Ma già nel 2017 è tornata a salire (+0,8 %), per effetto di una crescita del valore aggiunto (+2,1%) superiore a quella dell’input di lavoro (+1,3%).

Le statistiche più recenti di Eurostat, poi, ci forniscono altri elementi di valutazione interessanti.

Dato un valore 100 alla produttività del 2010 in ogni singolo Paese europeo, rileviamo infatti che l’Italia nel 1996 era già al 99,9 della produttività del 2010. E che nel 2016 siamo scesi al 97,9.

Peraltro nessun altro stato (tranne la solita Grecia) vede il proprio dato riferito al 2016 inferiore a 100: la Germania era al 90,6 nel 1996, nel 2016 è al 104. La Francia all’87,8 nel 1996, nel 2016 è al 103,4. La Spagna al 94,4 nel 1996, nel 2016 è al 105,8. Il Regno Unito, all’83,9 nel 1996 e nel 2016 è al 104,1.

Il nostro gap di produttività rispetto agli altri paesi dell’Eurozona (media: 1,6%) nasce quindi da lontano, riguarda la Total Factor Productivity ed aumenta nel tempo nel tempo: ma non per colpa del fattore “lavoro”

Il cui “costo”, sempre secondo Eurostat, nel 2016 era di 27,8 euro all’ora: meglio di 10  paesi su 28.

Meglio di Germania (33 €/h) e Francia (35,6€/h). Meglio persino della media UE, pari a  29,8 €/h.

E la stessa quota “non stipendiale” di quel “costo”, vale a dire il peso di “contributi e tasse”, incide relativamente, visto che si colloca al 27,4%, al di sopra della media UE, che è del 26%, ma non come ad esempio in Francia (33,2%) ed in altri paesi.

Insomma, non sembra proprio il lavoro ad essere il principale fattore frenante della Total Factor Productivity, quanto piuttosto il contributo degli altri “input”, il particolare la “K efficiency”.

La produttività del capitale tra il 1995 e il 2016 in Italia accusa infatti una flessione media dell’1,44% su base annua, con -1,75% tra il 2001 e il 2007, solo in parte mitigato dal valore -0,33% fatto registrare tra il 2010 e il 2016 (Fonte: Il Sole 24 Ore).

Un autentico disastro, che ci racconta quale sia il vero valore negativo che mortifica il margine di valore aggiunto delle nostre attività produttive.

E’ dunque, in realtà, il nostro modello di impresa a non funzionare.

Per effetto del suo generale posizionarsi in attività a basso valore aggiunto, di scelte di investimento (anche finanziario) che non generano adeguata efficienza marginale, di modelli relazionali del mercato interno che finiscono per generare meccanismi distorsivi della concorrenza.

Il cosiddetto “output gap”, di cui soffre l’Italia, di cui tanto si parla e che vediamo ben rappresentato nel grafico della figura 3 (per il quale ringraziamo Giovanni Zibordi) nasce più che altro da una “cattiva” impresa, che continua a prosperare in Italia nonostante la presenza di un quadro normativo ad essa sempre più favorevole, il larghissimo uso di ammortizzatori sociali per tamponarne le situazioni di crisi, il venir meno di una corretta dinamica di rapporti sindacali, per via del consociativismo garantito dalle organizzazioni più rappresentative dei lavoratori.

E così l’incredibile contributo fornito dallo Stato al finanziamento dell’impresa privata, con leggi agevolative per il lavoro, per un aumento del relativo comparto di spesa pubblica del 299% – 24,7 miliardi di euro in 10  anni –  ha generato davvero nulla in termini di fattori di crescita per l’economia della Nazione. Anzi.

Un tasso di disoccupazione cresciuto dal 6,1% del 2008 al 10,6% attuale. Un “output gap” che abbiamo appena visto.

Un reddito reale ancora al di sotto dei livelli di partenza. Compensi reali orari, in base alle statistiche OCSE, diminuiti tra il 2010 e il 2016 al tasso medio annuo dello 0,38% a fronte di un valore aggiunto pari a +0,21%, quinto peggiore andamento sui 34 Paesi OCSE, mentre prima della crisi (tra il 2001 e il 2007) avevano fatto segnalare un aumento dello 0,75%.

Per contro un valore di capitalizzazione del nostro parco della media impresa quasi quadruplicato, da un livello di 8.300 punti del novembre 2008 ai 31.800 attuali fatti registrare dall’indice FTSE Star.

A testimonianza del fatto che tutte le misure disposte per favorire lavoro ed occupazione hanno solo finito per impinguare le tasche degli azionisti ed in genere dei proprietari di impresa, i quali hanno così reso il fenomeno della deflazione salariale non una semplice contingenza dettata da un momento particolare della congiuntura (interna e internazionale) ma un vero proprio elemento strutturale delle relazioni sindacali e dello stesso loro rapporto con le autorità di Governo

Imputando peraltro il fenomeno del progressivo impoverimento della classe lavoratrice – che poi è all’origine dello stesso “output gap” per via della bassa domanda aggregata che ne consegue – agli stessi lavoratori.

(figura 3)

Ecco dunque il senso di quella mistificazione di cui parlavo prima e che, incredibilmente, si è realizzata con il contributo determinante dei partiti e dei sindacati della “sinistra”, che ancora oggi di fronte al tentativo dello Stato di restituire alle famiglie un po’ del potere di acquisto loro espropriato negli anni, e così anche di ammortizzare gli enormi costi sociali che questa situazione genera, oppongono il solito mantra: “date i soldi alle imprese, se volete davvero favorire l’occupazione”.

Niente di più falso, invece.

Dateli ai lavoratori, se volete davvero ottenere un’impresa più efficiente ed un miglioramento degli indici macroeconomici del paese.

LUIGI LUCCARINI


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