Attualità
Le privatizzazioni proposte da Letta ed il rischio di un altro caso Telecom Italia: spieghiamo il caso telefonia per capire il tranello
Dunque, l’Italia in crisi è spinta dall’Europa a privatizzare, come chiesto da Olli Rehn la scorsa settimana, oltre a dover fare altre sacrifici (avendo in mente quanto accaduto in Grecia, si è appena iniziato!). Concentrandoci sull’aspetto privatizzazioni, come indicato dal Governo esse avranno come oggetto immobili di stato e soprattutto aziende quotate. In un precedente intervento ho spiegato il rischio che lo Stato corre nel privatizzare assets facendo entrare un azionista di minoranza che dovesse controllare di fatto il board, in particolare nel caso in cui detto azionista di maggioranza relativa, magari solo con il 25%, possa bloccare l’assemblea straordinaria, ossia dove si votano tra le altre cose anche gli aumenti di capitale (vedasi i).
Facciamo di una storia complessa un racconto semplice. Dunque, le privatizzazioni delle aziende quotate sembrano essere indirizzate a fare scendere la quota dello Stato sotto il 30% – eccezion fatta per ENI, sembra, notizia di ieri -, come indicato dal ministro Saccomanni (vedasi ii). Tale livello è strategico in quanto, con lo Stato sotto tale limite, un soggetto esterno potrebbe acquisire azioni senza superare la soglia per fare un OPA totalitaria ed obbligatoria. Infatti il 30% è il limite oltre cui scatta l’obbligo di OPA totalitaria. Se un terzo azionista potesse, che so, disporre di una quota di azioni inferiore al 30% ma superiore di quella di ogni altro azionista potrebbe controllare il Board. Questa la teoria, per altro descritta in un precedente intervento (vedasi nota i).
Ora il caso Telecom Italia. Nell’azionariato dell’azienda telefonica nazionale c’è un grande azionista straniero, Telefonica, tramite l’azienda Telco, guarda caso al 22,5%. Telecom Italia è un’azienda che fa profitti, ma con un debito un po’ alto. Guarda caso, in uno strano parallelismo con l’Italia dell’Euro austero, i mercati chiedono di rientrare del debito. Visto che il rendimento del business è elevato la cosa più saggia sarebbe fare un aumento di capitale, provvedendo a dare garanzie da parte del business che la redditività del denaro prestato all’azienda sarà sufficientemente elevata. In questo contesto non sembra ci siano grossi problemi per Telecom Italia, le attività del Gruppo messo a nuovo sono redditizie, vedasi i bilanci aggregati e soprattutto i brillanti risultati delle partecipate sudamericane. Dunque, la prima scelta sarebbe quella di aumentare il capitale. E qui l’azionista di maggioranza relativa, appunto Telefonica, dice un rotondo no: per ridurre il debito meglio vendere assets (vi ricorda qualcosa questo approccio al problema?). Perché non vendere ad esempio la controllata Telecom Argentina? Telefonica sarebbe felicissima di comprarla. Anzi, no , chi la compra è – nottetempo, letteralmente – Fintech di David Martinez, chi ci sia dietro a questo oscuro personaggio ad oggi non si sa. Ma faremo in fretta a scoprirlo: aspettate qualche settimana o qualche mese e scommetto che Telecom Argentina verrà venduta a Telefonica o ci sarà qualche scambio di assets che avrà la stessa come contropartita. Con il beneplacito degli interessi nazionali italiani. E se volessimo aggiungere una nota di colore possiamo dire che la decisione di vendere la partecipata argentina è avvenuta con i voti contrari degli amministratori indipendenti (Zingales, ogni tanto riappare) e che le Assicurazioni Generali – che è anche azionista di Telco assieme a Telefonica, oltre a essere la promotrice della proposta di vendita di Telecom Argentina – per il tramite della sua partecipazione al Board sembra aver dimenticato di informare i membri del consiglio di amministrazione che la sua proposta di cessione avveniva in presenza di un proprio conflitto di interessi, veramente sbadati (la Consob sta indagando; vale la pena di ricordare che Generali ha nel top management un certo Galateri di Genola, di estrazione Fiat e membro dell’Aspen Institute, base fonti stampa). Ossia, la decisione del Board Telecom dovrebbe essere annullata, in teoria (vedasi la stria completa e soprattutto leggibile, nota iii). Notasi, importante, che oggi Telecom Italia tratta circa alla metà del valore di libro, ossia ad un prezzo da realizzo e svendita (leggasi, vendere oggi è da folli….)
TELECOM ITALIA | ||||||
Actuals in M € | Estimates in M € | |||||
Fiscal Period December | 2010 | 2011 | 2012 | 2013 | 2014 | 2015 |
Sales | 27 571 | 29 957 | 29 503 | 27 614 | 25 950 | 25 596 |
Operating income (EBITDA) | 11 683 | 12 246 | 11 645 | 10 749 | 10 142 | 9 978 |
Operating profit (EBIT) | 6 114 | 6 761 | 6 215 | 5 576 | 5 176 | 5 103 |
Pre-Tax Profit (EBT) | 4 127 | -2 624 | -44 | 1 620 | 3 299 | 3 454 |
Net income | 3 121 | -4 726 | -1 627 | -3,8 | 1 878 | 1 891 |
EPS ( €) | 0,16 | -0,24 | -0,08 | 0 | 0,09 | 0,1 |
Dividend per Share ( €) | 0,06 | 0,04 | 0,02 | 0,02 | 0,02 | 0,01 |
Fonte: www.4–traders.com , Novermbre 2013
Telecom Italia ha molte similitudini con ENEL, entrambe hanno forti interessi nel ricco mercato sudamericano: per lo straniero di turno fare lo spezzatino a prezzi di realizzo sarebbe l’optimum (ah, dimenticavo, Telecom Argentina viene venduta per 700 milioni di euro mentre è senza debiti, macina abbondanti utili, fattura circa 3,8 mld di euro avendo per altro in cassa quasi 600 milioni di euro di liquidità…). Insomma, chi non vorrebbe ricevere un tale regalo? Guarda caso – non è un caso – il management di ENEL, tutt’altro che sprovveduto, per parare il colpo politico dell’eventuale svendita sta impostando un’operazione per l’acquisto del 100% di Endesa, andando a rastrellare in borsa il rimanente 8% di flottante ancora quotato sulla borsa di Madrid: non sia mai che al politico di turno venga in testa l’idea di far vendere le partecipate sudamericane. La conventional wisdom insegna che un’azienda buona deve restare in famiglia, soprattutto se sistemica e rende bene, oltre a comportarsi almeno in linea con i competitors internazionali. Per ENEL il caso è addirittura parossistico: dati alla mano sembra l’azienda meglio gestita del settore, almeno per quanto riguarda i competitors europei (ripeto, dati alla mano, vedasi nota i). In questo generale contesto, ricordiamo che il Ministro Saccomanni ha proposto di vendere quote di un’altra azienda strategica, ENI, che rende circa il 6% per ripagare un debito statale che costa meno del 4% annuo: mi sorge il dubbio che il ministro abbia problemi a fare di conto (vedasi nota ii).
Tutto questo dovrebbe insegnarci i rischi che si corrono con le privatizzazioni forzate, anche quelle che apparentemente sembrano innocue, quelle che magari solo diluiscono la partecipazione dello Stato sotto il 30%. Che sono poi quelle imposte dai poteri forti sovranazionali per impossessarsi a basso prezzo degli assets altrui, possibilmente senza far capire nulla ai cittadini, che sono alla fine i veri proprietari avendo loro costruito nel caso in esame la rete di telecomunicazione nazionale con i soldi delle loro tasse decine di anni or sono…. Anche perché se vengono vendute le controllate di gruppo che rendono bene, ossia il frutto di anni di investimenti soprattutto pubblici, alla fine chi ci rimette mica sono gli azionisti – che vedono le azioni salire -, ma solo l’occupazione italiana che di fatto è in qualche forma sostenuta dai profitti esteri e che dunque molto probabilmente verrà di conseguenza ridotta (ecco l’importanza di avere multinazionali italiane, NOTA BENE, questo ragionamento vale solo se l’azienda è sistemica e strategica come le telecomunicazioni, l’energia, la difesa). E la cosa interessante è che il risultato di tutto questo, in caso di privatizzazioni/svendite generalizzate, sarà nel medio termine un abbassamento dei consumi del Paese nel suo complesso (ENEL, ENI, Telecom Italia, Finmeccanica occupano centinaia di migliaia di persone in Italia, se le maestranze vengono licenziate queste non consumeranno più!), oltre che un peggioramento delle tasse incassate dallo Stato (vedasi nota i). Dunque si abbasserebbe il GDP, e quindi si incrementerebbe il ratio debito/GDP e quindi la crisi si acuirebbe anche nei termini in cui viene percepita dall’Europa. I dati macroeconomici negativi metterebbero in condizione Bruxelles di chiedere ulteriori sacrifici al Paese in base alle procedure del fiscal compact e collegati provvedimenti, leggasi austerity, che di fatto ridurranno ulteriormente i consumi, ecc. ecc. Insomma una reazione a catena, esplosiva per il Paese.
È opinione di chi scrive che oggi l’Italia sia il vero vaso di coccio in mezzo ai vasi de fero. In una crisi economica secolare come quale attuale, crisi da cui nessun paese si può considerare immune, scemata la possibilità di accaparrarsi beni a basso prezzo provenienti dalle colonie – ossia quanto accadeva agli inizi del secolo scorso, oggi le colonie sono divenute in molti casi addirittura più potenti del vecchio colonizzatore -, l’unico artifizio è impossessarsi dei valori tangibili dei paesi accessibili se non vicini che siano deboli od indeboliti. L’Italia è il target perfetto. A seguito di vari scandali in cui la manina internazionale ha certamente lasciato qualche traccia (vedasi il caso Libia e la cancellazione di Gheddafi, chiaramente un partner economico-strategico importante per la Penisola), pur in presenza di innegabili colpe nazionali, il paese è politicamente debole ed anzi governato da politici che sarebbero senza futuro se non ci fosse la stessa incertezza che oggi giustifica la loro presenza (vi vedete Letta presidente del consiglio di un’Italia stabile ed ambiziosa?). Parimenti l’Italia è molto ricca, ha risparmi privati secondi a nessuno in Europa ed ha poche ma ottime aziende multinazionali che fanno veramente gola. Inoltre, la tassazione nazionale elevata anche sui profitti rende conveniente il trasferimento della sede o l’accentramento dei profitti delle filiali estere praticamente in qualsiasi paese europeo, giustificando il di fatto l’esproprio (o svendita) con ipotetiche logiche di mercato, che di mercato hanno veramente poco visto che le tasse ci chiede di alzarle lo stesso soggetto che probabilmente ci vorrà comprare gli assets spostandone la sede. E notate che non ho parlato di Germania, ma di poteri forti sovranazionali (dopo trent’anni, forse ho capito cosa sia la plutocrazia di mussoliniana memoria) . E poi, la ciliegina: la mia impressione è che, tranne per il settore del lusso e per qualche indubbia eccellenza settoriale, lo straniero sia molto attento ad acquisire le partecipate straniere di aziende italiane, quelle che oggi valgono. Si sa, gli italiani sanno farsi valere e volere bene all’estero e dunque molto spesso hanno investito quando nessuno nemmeno ci pensava in mercati emergenti con logica cooperativa e per questa ragione hanno spesso acquisito o costruito aziende in mercati difficili che oggi sono letteralmente oro – ad es. Telecom Brasil, la prossima… -, Mattei docet). Detto in altri termini, l’optimum per chi vuole comprare bene è comprare dall’Italia per investire all’estero: visto che la crisi e gli effetti dell’austerity distruggeranno a medio termine il substrato economico – e sociale – italiano meglio tenersi lontani dall’Italia spolpando solo il buono che può offrire, il buono che sta all’estero intendo (nel nostro caso Telecom Argentina, Telecom Brasil, da comprare separatamente da Telecom Italia). Dite che sono pazzo? Vedremo nel 2014…. Chi mi conosce la pensa diversamente, credetemi….
E quindi, vogliamo parlare di come finirà? Semplicemente, diventare schiavi. Schiavi del debito estero detenuto dagli stranieri, ossia degli stessi che oggi dicono di privatizzare e fare austerity. Ah, dimenticavo: in questo scenario avvilente l’Italia sarà almeno abbondantemente se non ben rappresentata, quasi certamente qualche politico di quelli che sono oggigiorno mediaticamente “apprezzati” sarà presto alla guida di qualche importante istituzione europea, premiato per aver aiutato a raggiungere l’obiettivo di salvare i profitti euro-tedeschi (affossando il Belpaese). Scommettiamo? Se ci pensate bene alla fine Prodi e Draghi, gli artefici delle privatizzazioni/svendite del 1992, non è che ne sono usciti così male, di carriera ne hanno fatta tanta…
In conclusione, la ratio è molto semplice: se un’azienda va bene perché privatizzarla? Se rende più del debito statale, perché alienarla? Se genera occupazione in Italia, perché venderla soprattutto se sistemica e strategica, facendo poi spostare la sede e l’occupazione all’estero? Se il management è performante, perché sostituirlo? E quindi, permettetemi, ma a che gioco stiamo giocando? Al massacro per caso (sulla pelle degli italiani)? O meglio, a che gioco stanno giocando i nostri attuali politici? Stavolta finisce male per la Penisola, mi sa…
Mitt Dolcino
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