Attualità
La questione meridionale ai tempi dell’euro
All’inizio dell’anno girava un’immagine di un vecchio articolo del Corriere della Sera, che si intitolava “Il divario fra nord e sud verrà colmato solo nel 2020”.
La data di pubblicazione era mercoledi 13 settembre 1972, e non si tratta di un fake. Lo stesso Corriere ne ha confermato l’autenticità in questo pezzo sul loro sito web.
Il “ritardo” del sud italia, la famosa questione meridionale, era e rimane uno dei principali problemi interni del Paese.
Oggi cercheremo di capire, dopo l’adozione dell’euro, cosa è successo a questo divario e se il mezzogiorno sta meglio o peggio rispetto al passato.
La moneta unica europea ha fatto danni da guerra all’Italia, ma è senza dubbio il sud che ha pagato il “conto” più alto.
Per valutare bene la situazione, analizzeremo alcuni fra i principali indicatori macroeconomici ripartiti per area geografica: nord, centro e mezzogiorno.
A scanso di equivoci, con il termine “mezzogiorno”, nelle serie ISTAT, è compresa anche la Sardegna. Allora cominciamo.
DISOCCUPAZIONE
La prima cosa che viene in mente riguardo la questione meridionale è il problema della disoccupazione, vediamo quindi la serie ricostruita da fine anni 70 ad oggi.
Nel primo anno disponibile, il 1977, la disoccupazione era l’8,05%, da qui sale fino al 15,95% del 1989 per poi scendere leggermente al 13,87% del 1992.
Nel biennio 1998-99 sfiora il 20% per poi diminuire fino al 10,96% del 2007. Dopo le due recessioni del 2008-09 e 2012-13 la disoccupazione tocca il suo record storico nel 2014 con il 20,67%. Nel 2019, pur rimanendo altissima, scende al 17,58%.
Ed ora ecco la disoccupazione giovanile, che nel periodo 2013-2017 ha visto la disoccupazione pari o superiore al 50% (cioè uno su due!), con il picco massimo del 55,85% registrato nel 2014.
Se già l’Italia non è un Paese per giovani, il sud lo è ancora di meno. Tanti altri dati sui 15-24enni si trovano in questo articolo.
INATTIVITÀ
Svelato il “segreto di Pulcinella” sulla disoccupazione, i più attenti avranno notato il crollo dei disoccupati dal 20% del 1999 fino all’11% del 2007.
Gran parte di questa diminuzione riguarda il boom di inattivi, cioè di coloro che il lavoro non ce l’hanno e non lo cercano. Prendiamo in eseme la fascia dai 15-64 anni, dove c’è il più alto potenziale di forza lavoro disponibile.
Storicamente il tasso di inattività, cioè il numero di inattivi rapportati alla popolazione di riferimento, si mantiene in media attorno il 46% dal 1977 al 97, da qui scende e tocca il minimo storico nel 2002 con il 43,94%.
Ma dal 2003 in poi schizza in alto, fino ai massimi del triennio 2009-2011, con valori attorno il 49%. L’anno scorso, nel 2019, l’inattività è scesa al 45,36%, ma resta ancora più elevata rispetto ai primi anni 2000.
OCCUPAZIONE
Arriviamo quindi al lavoro vero e proprio, dato che andremo a vedere il tasso di occupazione, cioè il numero di occupati rapportati alla popolazione di riferimento.
Anche in questo caso prendiamo in esame l’età lavorativa (working age), calcolato sulla popolazione dai 15 ai 64 anni.
Soprattutto dagli anni 90 ad oggi, l’occupazione in Italia è cresciuta per due principali fattori:
il primo è il forte aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, mentre il secondo è – ambo i sessi – il boom dei “lavoratori anziani“, cioè di quelle persone di età compresa fra i 55 e i 64 anni.
Vediamo in ordine entrambi i fattori.
OCCUPAZIONE PER GENERE
Nella media nazionale accade questo: a fronte di una leggera diminuzione della componente maschile, si ha una decisa salita di quella femminile.
Nel 1977 gli uomini e le donne al lavoro erano rispettivamente il 74,61% e il 33,52%, mentre nel 2019 gli uomini erano il 68,01% e le donne il 50,12%.
Messi assieme, uomini e donne, il tasso di occupazione nazionale ha toccato il massimo storico lo scorso anno, con il 59,04% contro il 53,77% del 1977.
Cosa succede invece al sud, sempre dal 77 al 2019? A fronte di un leggero aumento dell’occupazione femminile (dal 25,98 al 33,19%) si ha un crollo deciso di quella maschile (dal 72,62 al 56,62%). Ecco il grafico.
Il tasso di occupazione più alto nel sud italia è stato raggiunto – ambo i sessi – nel 1979 con il 49,77%, mentre nel 2019 viaggiava attorno il 44,83%.
OCCUPAZIONE PER ETÀ
L’ISTAT mette a disposizione una ricostruzione dettagliata sulle fasce d’età degli occupati, il primo anno disponibile è il 1993.
Nella media nazionale, dal 93 al 2002, la fascia giovanile (15-24 anni) e quella dei lavoratori anziani (55-64 anni) si sono attestate in media, al 29,91% per i giovani e al 28,12% per gli anziani.
Dal 2003 in poi le curve si incrociano e gli anziani superano i giovani. Nel 2019 la fascia dei 55-64 anni aveva un tasso di occupazione pari al 54,29% mentre l’occupazione giovanile crolla al 18,49% (nonostante la leggera risalita dal 2015).
Cosa succede nel sud italia? Gli anziani al lavoro, dal 93, sono sempre stati superiori ai giovani, ma dopo il 2002-03 il gap “esplode”.
Nel mezzogiorno l’occupazione dei 55-64 anni è pari al 45,41%, un valore leggermente superiore al 44,98% ai 25-34enni.
Anche al sud il tasso di occupazione giovanile è drasticamente calato: dal 20% in media del 93-2002 al 12,34% del 2019.
NON ESISTE MERIDIONALISMO SENZA ANTI-EUROPEISMO
La questione meridionale è uno dei “problemi interni” che l’Italia si porta ormai da 160 anni. L’adesione alla moneta unica ha solo aggravato la situazione dei cittadini del sud e delle isole.
Nel 2002 il mezzogiorno aveva il tasso di occupazione pari al 46,86% mentre nel 2007 era il 46,51%: come detto la diminuzione della disoccupazione (dal 2002 al 2007) non fu la conseguenza di nuovo lavoro, bensì dell’aumento degli inattivi, di chi cioè ha smesso di cercarlo.
E dopo la doppia recessione, crisi finanziaria globale e “cura monti”, l’occupazione ha fatto segnare il minimo storico nel 2014 con 41,75%.
Se invece si tenesse conto del tasso di occupazione totale (cioè quello dai 15 anni in su) i dati diventano ben più drammatici, nel 2019 era il 34,87% contro il 44,93% della media nazionale, sempre nello stesso anno.
E tutto questo senza considerare la qualità del lavoro o l’emigrazione, sia verso il centro-nord sia verso l’estero. Ma qual è la soluzione? Continuare ad alimentare divisioni interne? Io non credo.
Soprattutto dopo il 2011, anno del 150° anniversario dell’unità d’Italia, sono stati diffusi in rete video e materiali sul revisionismo storico di quel periodo, per provare la tesi che il sud è stato “rapinato” dal nord (in particolare dal Piemonte).
Fra i più noti “revisionisti” c’è sicuramente Pino Aprile, autore del best-seller “Terroni“. Segnalo questo confronto dello scrittore pugliese con Francesco Amodeo, che dura 50 minuti.
Personalmente sono favorevole al revisionismo storico, io stesso lo faccio. Che l’unità d’Italia sia stata fatta male è pacifico, infatti le divisioni interne esistono e ci accompagnano ancora oggi.
Tuttavia, facendo come battaglia comune l’uscita dell’Italia dall’euro e dall’Unione Europa, abbiamo un’occassione storica per unire davvero il paese (da Nord a Sud) e salvarlo dall’oscena dittatura finanziaria di Bruxelles.
Torntati padroni a casa nostra, della nostra moneta e della nostra economia, la prima cosa da fare è cancellare per sempre la questione meridionale.
Come vedete, fatto “100” i valori del centro-nord, nel 2016 il mezzogiorno aveva il 55% del pil pro capite del centro-nord (linea blu), un dato fra i peggiori della serie storica, sebbene non sia il peggiore in assoluto.
E inoltre non è nemmeno vero che al sud “si danno un sacco di soldi”: dal 2000 al 2016 il mezzogiorno è sempre stato sottofinanziato rispetto al centro-nord, con la sola leggera eccezione del 2015.
Ritornando ad avere sovranità monetaria piena, la balla del “non ci sono i soldi” non sarà più bevuta dal popolo, quindi lo Stato sarà costretto a realizzare tutte le infrastrutture, e creare quei posti di lavoro che i meridionali attendono da decenni.
Alla fine della fiera, non esiste quindi meridionalismo senza antieuropeismo: una volta riscattata la sovranità, continuare a far rimanere il sud arretrato sarà solo una vile scelta politica.
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