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LA LETTERA DI TRIA, LA SPESA PUBBLICA E LE BOMBE D’ACQUA di Nino Galloni.

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I cambiamenti climatici – non dovuti alle emissioni di anidride carbonica, ma all’attività solare – devono farci riflettere su due aspetti: come affrontarli; con quali risorse economiche.

La sfida, oggi come domani, non consiste nella velleitaria resistenza ai cambiamenti (che ci sono sempre stati, non sono opera dell’uomo, ma adesso avvengono a fronte di un’antropizzazione ben diversa rispetto al passato), ma nella fattiva predisposizione di tutti gli strumenti disponibili. Da una parte occorre che la cementificazione non significhi la predisposizione di barriere che impediscono all’acqua di defluire; dall’altra che tutte le infrastrutture esistenti subiscano una manutenzione efficace e tempestiva.

Ciò implica dei costi di cui la comunità deve farsi carico per non doverne affrontare di ben maggiori quando le catastrofi – sempre più sovente – accadono: 1) si possono fare delle collette; 2) si possono raccogliere coattivamente delle tasse di vario genere; 3) lo Stato può spendere in disavanzo anche per fornire i mezzi monetari necessari alle istituzioni dedicate; 4) lo Stato può emettere una propria valuta nazionale non a debito che non è contemplata – né, quindi, impedita – dall’art. 128 del Trattato di Lisbona che si occupa di banconote e di moneta avente corso legale nell’Unione.

Delle prime due c’è poco da dire; della spesa in disavanzo – con debito, per di più, in moneta estera, l’euro – si sta parlando in questi giorni tra il nostro governo ed i vertici dell’Unione (sarebbe più esatto Disunione, ma lasciamo stare) e, quindi, cerchiamo di riassumere i termini della questione.

I singoli Stati sono liberi di decidere le proprie politiche economiche, ma nel rispetto degli accordi e dei parametri concordati. Di fronte ad una crisi occupazionale, sociale ed ambientale senza precedenti, il “Pacta sunt servanda” viene sempre superato dal “Ad impossibilia nemo tenetur”: se ci fossero milioni di persone per strada a protestare energicamente, nessuno avrebbe dubbi; ma – a differenza di quanto accadeva fino a pochi decenni fa – sembra che, a parte qualche terremotino elettorale, le situazioni reggano…finchè reggono…

La spesa pubblica in disavanzo è ed è stato lo strumento principe con cui i governi puntavano alla crescita economica: infrastrutture, scuole e Università, Welfare, ecc. poi si è riscontrato un indebolimento dello strumento senza, però, che nessun’altra misura l’abbia potuto sostituire. La riduzione delle tasse si è rivelata controproducente se ottenuta con una pari riduzione della spesa; sarebbe efficace e necessaria a parità di spesa: ma, con ciò, il deficit aumenterebbe.

Orbene, la minore efficacia della spesa in deficit è stata dovuta a un indebolimento del moltiplicatore della spesa produttiva e per investimenti; il moltiplicatore è il valore – superiore ad 1 – per cui moltiplicare (di qui il nome) la spesa stessa per valutarne l’impatto sul PIL; per gli antikeynesiani – ad esempio il FMI o la Banca Mondiale – che ne vogliono sminuire l’importanza, esso è 1,5; tempo fa esso era stato stimato, per le grandi infrastrutture, la ricerca, ecc. intorno a 3 e si posizionava tra il 2 e il 3 per quanto riguardava i sussidi di disoccupazione, le  pensioni sociali, ecc.

Adesso succede che esso non raggiunge il 2 per le grandi infrastrutture e, in generale, gli investimenti produttivi perché l’intensità del lavoro – grazie alle tecnologie – si è molto ridotta; invece rimane elevato nelle prestazioni cosiddette assistenzialistiche purchè queste ultime raggiungano persone o famiglie attorno alle condizioni di povertà (quei milioni e milioni che non sono in grado nemmeno di garantirsi due pasti completi al giorno).

Allora: la lettera che lunedì 22 ottobre mattina il ministro Tria ha inviato ai vertici economici di Bruxelles (e che il Presidente Conte ha immediatamente appoggiato) prevede che, se la manovra italiana in corso non produrrà effetti adeguati sul PIL, onde non superare il 2,4 di deficit (rispetto al PIL), la spesa dovrà essere tagliata.

In altri termini, questo governo – a differenza dei precedenti – dà priorità alla crescita del PIL (quello, peraltro, che ci chiedono i “mercati”) e non alla tenuta dei conti che, si badi, però, rimane un vincolo, non una variabile residuale.

Ma, per far crescere il PIL occorre una spinta notevole; infatti, il rapporto spesa pubblica PIL non è più lineare, ma complesso: se un grande aumento della spesa a deficit assicura un aumento più che proporzionale del PIL, un piccolo aumento può avere un effetto nullo, non un effetto proporzionato. Paradossalmente, come s’è già detto, avrà un effetto maggiore la spesa assistenziale invece che quella – si badi bene, necessaria, necessarissima – per le infrastrutture, l’ambiente, ecc.

Siccome le previsioni internazionali per il 2019 non sono buone (si veda, anche il mio ultimo “L’INGANNO E LA SFIDA. 2019: LE RAGIONI DI UNA CRISI FINANZIARIA”), il rischio è che tra qualche trimestre bisognerà ricominciare a tagliare la spesa pubblica. Invece, proprio per affrontare la crisi, occorrerebbe fare il contrario: lo Stato deve occuparsi dei poveri, dei giovani, delle buche, delle bombe d’acqua, degli ospedali, del territorio, delle scuole. Risorse si possono ricavare dalla valorizzazione del patrimonio esistente; ma perché ciò accada e non sia un’inutile svendita della ricchezza, occorrono investimenti anche in disavanzo, collaborazione coi partner privati e stranieri.

In uno scenario di spinta alla valorizzazione del nostro immenso patrimonio semiabbandonato, il deficit spending deve spingersi fino al pieno riassorbimento di tutte le risorse disoccupate: tecniche, umane e finanziarie (si pensi che, in Italia, 1milione e trecentomila persone detengono oltre tutto il resto, più di 500mila euro inutilizzati nelle banche). Una tale misura dovrebbe valere per tutti i Paesi dell’Unione e, quindi, varierebbe a seconda del rispettivo tasso di disoccupazione combinato con la capacità di proporre progetti di valorizzazione delle risorse stesse.

Tale scenario non pregiudicherebbe gli interessi dei Paesi più forti che, quindi, dovrebbero spendere meno e consentirebbe di superare la più grande remora verso l’Europa: vale a dire che le scelte deflazionistiche dei passati decenni abbiano consentito solo un maggiore impoverimento ed asservimento dei cittadini invece dell’obbiettivo contrario (per cui la politica si sarebbe dovuta battere con determinazione).

Infine, ciascuno Stato può eserciate sovranità monetaria nazionale – per qualche punto di PIL, senza esagerare – in quanto tali mezzi avrebbero circolazione solo interna, non sarebbero convertibili, avrebbero, all’emissione, lo stesso segno algebrico delle imposte (quindi ridurrebbero il deficit) e, quindi, ritornerebbero all’emittente in pagamento delle tasse.

Tale misura, un po’ più di deficit ed il ritorno a banche di credito legate al territorio ed agli investimenti produttivi, assicurerebbero maggiore occupazione, la crescita sostenuta del PIL ed un miglioramento dei conti pubblici.

Nino Galloni


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