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La democrazia dopo il virus – Manifesto in 12 punti per la rinascita della Repubblica Italiana

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La vicenda del Covid-19 ci ha terremotato: a livello individuale, sociale, psicologico, sanitario, economico e finanziario. Forse, l’unica dimensione rimasta per ora immune dal contagio è stata – paradossalmente – quella politica. E dico “paradossalmente” perché la politica non è nient’altro che la traduzione (sul piano delle scelte di Governo di uno Stato) delle condizioni individuali, sociali, psicologiche, sanitarie, economiche e finanziarie di tutti i consociati; i quali, nel loro complesso, costituiscono il “corpo vivente” della Nazione.

Ma forse il paradosso è solo apparente. I cambiamenti politici, come ci ha insegnato Marx, avvengono sempre “dopo” e non “prima” rispetto ai rivolgimenti di carattere economico relativi alle forze produttive e ai rapporti di produzione. E qui si profila all’orizzonte un cataclisma epocale sia sul piano economico (per restare a Marx) sia sul piano individuale, sociale, psicologico, sanitario, economico e finanziario, per tornare al punto da cui siamo partiti.

Ebbene, state certi che questa rivoluzione copernicana, sia pure con tempi più lenti rispetto a quelli contingentati della emergenza attuale, colpirà dritto in faccia anche la politica di casa nostra. I protagonisti “inidonei” della classe dirigente attuale, sono destinati a lasciare il passo a forze e ad attori differenti e, per il momento, ignoti. E sapete il motivo? Non tanto perché quelli in carica siano “sembrati” inadeguati a gestire l’epidemia (e soprattutto i suoi esordi) quanto piuttosto perché essi “sono” davvero inadeguati – sul piano caratteriale, culturale, ideologico e pragmatico – ad affrontare il futuro che verrà.

Un futuro in cui avranno sempre più spazio gli umori, le speranze, le volontà di milioni di cittadini italiani destinati (per colpa o per merito del Coronavirus) a svegliarsi da un letargo ultradecennale. Questo popolo ha bisogno di punti di riferimento, anche e soprattutto giuridici, radicalmente nuovi.  Diversi, per non dire specularmente antitetici, rispetto alla “rancida minestra” con cui hanno dovuto confrontarsi fino ad oggi. Una minestra fatta di: UE, BCE, Commissione europea, Trattato di Maastricht, Trattato di Lisbona, Fiscal compact, Mercati, Borse, austerity, spread.

Un sacco di gente ha trangugiato questa “zuppa” per troppo tempo solo per pigrizia mentale e per mancanza di alternative. Oppure perché persuasa dal famoso “adagio” di Monti: il costo psicologico di uscire dalla gabbia europeista e neoliberista è sempre stato superiore al costo psicologico di “obbedir tacendo” e di “subire” la situazione, come schiavi inerti e passivi.

Oggi, però, tutto è cambiato. Il Coronavirus ha falciato gli italiani come mosche, a causa delle croniche carenze del Servizio Sanitario Nazionale, falcidiato, a sua volta, da anni di tagli. È giunta l’ora di svoltare. E, dunque, gli attuali pupi e pupari, star e comparse, del palcoscenico politico italiano dovranno, probabilmente, trovarsi un altro lavoro. Oppure tornare al lavoro di prima; non importa. A noi interessa, invece, dettare una sorta di promemoria programmatico, una specie di “decalogo”, ma in dodici punti, per tutti quelli i quali, finita la crisi, vorranno ripartire da zero.

Abbiamo condensato in questi dodici “comandamenti” una lista di cose “giuridiche” da fare (alcune per prime e più in fretta di altre) per riconsegnare, un po’ alla volta, l’Italia agli Italiani. E anche per sfuggire, una volta per tutte, a quell’ineluttabile declino cui l’Italia sembrava condannata prima dell’emergenza Covid-19.

Come potrete facilmente verificare, tra questi punti non ci sono (per il momento)  l’uscita dalla UE e dall’euro. Ma ciò non significa che questi non siano eventi auspicabili, e tantomeno che non siano obbiettivi programmabili e realizzabili. Più semplicemente, ci sono altri traguardi (più “vicini”) da tagliare in tempi abbastanza rapidi se vogliamo veder realizzato, un bel giorno, anche il Sogno dell’Italexit.

A tal proposito, si impongono due indiscutibili considerazioni:

  1. A) c’è bisogno, ora, del contributo di un numero più alto possibile di cittadini; e quindi è giunto il tempo che tutti i cervelli “accesi” e “pensanti” – dai più risoluti  sovranisti ai più tiepidi euroscettici – si diano, temporaneamente, una mano.  Al fine di realizzare una lista di riforme su cui è possibile una “condivisione” di vedute. Una lista potenzialmente propedeutica (ma non necessariamente vincolata) alla prospettiva dell’Italexit;
  2. B) l’uscita dalla UE (e quindi dall’euro) oppure dall’euro (e poi, eventualmente, dalla UE) è una scelta politica forte per la quale non basta l’isterico furore di una risicata minoranza. Ci vuole il convinto sostegno – oggi non ancora esistente nel Paese – di una maggioranza ampia (almeno un 55-60% degli elettori) e di una coalizione coesa di forze politiche determinate a staccare la spina. E, tuttavia, c’è un sacco di lavoro che si può comunque fare, prima di raggiungere la “massa critica” necessaria, e che potrà rivelarsi utile anche in vista della meta più ambiziosa.

Le misure infra proposte hanno sia la funzione di rendere “tecnicamente” meno indolore e più ordinata una eventuale uscita dalla UE e dall’eurozona sia quella di rendere l’Italia già oggi – e pur nel quadro dei trattati vigenti – molto meno prona alle istituzioni internazionali (ed europee, in primis) e molto meno ricattabile dai Mercati e dalla finanza speculativa. Tali misure, inoltre, permetteranno, con la dovuta gradualità, di far maturare, negli italiani, la consapevolezza che un altro “mondo” (senza UE e/o senza euro) è pragmaticamente fattibile.

Un’ultima, indispensabile, premessa. Ciascuno dei seguenti punti sarebbe vano se non accompagnato da una granitica, e non negoziabile, opposizione rispetto alla proposta di firma di qualsiasi nuovo trattato europeo finalizzato alla implementazione del progetto unionista. È sufficiente un piccolo esame di coscienza su quanto avvenuto negli ultimi trent’anni per rendersi conto che ogni singolo problema – per il nostro Paese e per la nostra sovranità politica, legislativa ed economica – è venuto dalla sottoscrizione superficiale, ottusa (e, purtroppo, quasi sempre unanime) di qualche trattato (da Maastricht a Lisbona,  dal MES al Fiscal Compact). Ergo, l’unico modo per salvare il salvabile è partire “restando fermi”. Come ci muoviamo, in campo europeo, sbagliamo. Per questo, prioritaria è l’impegno irrevocabile a non firmare più alcuna “cambiale”, tantomeno in bianco. Che si tratti di questioni sulla governance bancaria o fiscale piuttosto che sulla “riforma” del MES, nulla va più sottoscritto. Da qui si comincia, per poi innestare la retromarcia. E come si fa a fare “macchina indietro”? Intanto, smettendola di schiacciare l’acceleratore per “andare avanti”. Quindi, tirando il freno a mano. E poi attraverso una programmatica rivisitazione giuridica (a colpi di “abrogazioni”, ma non solo) dei principali “vincoli esterni” coi quali ci siamo via via incatenati nel tempo.

Veniamo ora al Manifesto. Nota bene: sono tutte proposte largamente “imperfette”, e quindi emendabili, migliorabili, integrabili, sostituibili, aggiustabili, persino eliminabili se del caso. Ma sono comunque, e perlomeno, una piattaforma politico-giuridica a cui appoggiarsi per guardarsi attorno e puntare lo sguardo lontano, e su cui cominciare a riflettere in vista di un domani migliore. Suscettibile di essere implementata –  va da sé –  da contributi di altri studiosi e di altre materie: dall’economia in giù, e in su. O viceversa, fate voi.

1) Rifiuto categorico di ratificare, in Parlamento, il trattato sul “Nuovo MES” a cui questo Governo darà convinta adesione. Il MES è l’anticamera del fallimento dell’Italia intesa come Repubblica sovrana, democratica e “indipendente” (sia da forze extra-statuali esterne, sia dai Mercati e dalla Finanza globali). Ratificarlo significherà “consegnarci”, una volta per tutte, alla logica perversa del “debito” quale unica possibilità, per uno Stato, di immettere risorse nella propria economia. Significherà, altresì, sottoporsi alle micidiali “condizionalità” in cui si tradurranno i correlati “memorandum di intesa”: smantellamento e/o privatizzazione del nostro sistema sanitario, scolastico, previdenziale eccetera; svendita del nostro patrimonio e dei nostri beni; “ipoteca” e “mani altrui” sui nostri risparmi. Tutte prospettive possibili il giorno in cui, malauguratamente ma inevitabilmente, l’Italia avrà bisogno del sostegno di questa macchina infernale.

2) “Denuncia” del Fiscal Compact (Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance  della unione economica e monetaria del 2012) e abrogazione della legge di ratifica del medesimo trattato (nr. 114 del 23.07.12) nonché della legge “rafforzata” (nr. 243 del 24.12.2012) che ne dà pratica attuazione. Questo passo è imprescindibile. Il Fiscal Compact è la “madre” di tutte le nostre sciagure più recenti e, in particolare, della perversa ideologia dell’austerity. E’ il fiscal compact  ad impedirci “materialmente” di trovare i miliardi necessari per qualsiasi politica sociale, per ogni progetto implicante spesa pubblica espansiva (dalla flat tax al reddito di cittadinanza etc.). Ovvero a consentirci di trovarli, ma solo a un prezzo salatissimo: uno sfiancante e umiliante negoziato, a colpi di decimali di punto, con quella entità di “Governo esterno” (della “Colonia Italica”) che, a tutti gli effetti, deve considerarsi la Commissione con sede a Bruxelles.

3) “Restitutio in integrum”, cioè riconduzione al dettato originario, degli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione italiana “deturpati” dalla legge costituzionale nr. 1 del 20.04.2012 con la quale è stato addirittura costituzionalizzato il principio del pareggio di bilancio: sia a livello nazionale e di Governo centrale che a livello di pubbliche amministrazioni e di enti locali. Ricordiamo che espungere dal nostro ordinamento giuridico le norme di cui al punto 2 ed emendare gli articoli della Suprema Carta testé citati significa, automaticamente, ritornare all’originario limite del deficit annuale (per uno Stato dell’eurozona) previsto dal Trattato di Maastricht: il famoso 3 per cento sul PIL. Un limite contestabile finchè si vuole, ma di gran lunga meno gravoso rispetto allo “zero virgola cinque” previsto dalla stolta “etica puritana” del pareggio di bilancio. Parliamo, per intenderci, con riferimento all’Italia, di una possibilità di spesa intorno ai 50 miliardi di euro all’anno. E non dimentichiamo che abbiamo il diritto dalla nostra. Infatti, lo stesso trattato sul Fiscal Compact, all’articolo 2, comma 2 prevede: “Il presente trattato si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione europea e con il diritto dell’Unione europea”. Ebbene, il pareggio di bilancio non è compatibile con i trattati europei. Così come non lo era il Regolamento 1466/1997, antesignano del Fiscal Compact, e fatto letteralmente a pezzi dal grande giurista Giuseppe Guarino nel suo pamphlet “Un saggio di verità sull’euro”.

4) Abrogazione della riforma dell’articolo 117 della Costituzione introdotta con legge Costituzionale nr. 3 del 18.10.01 nella parte in cui stabilisce che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, “nonchè dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Le parole da “nonché” in poi vanno cancellate se vogliamo ritornare sovrani – per lo meno sul piano delle enunciazioni di principio – rispetto al potere legislativo (fondamentale per qualsiasi entità statuale con ambizioni di autonomia e indipendenza). Ciò non comporterà alcuno sconquasso immediato  a livello di trattati europei; come dimostra il fatto che l’Italia faceva già parte, da quasi dieci anni, della UE (istituita con il Trattato di Maastricht del 07.02.1992) quando intervenne la modifica costituzionale di cui stiamo parlando. Il rapporto tra fonti normative nazionali e fonti normative internazionali (trattati, regolamenti e direttive) è già regolamentato dai  principii enucleati dalla nostra Corte Costituzionale in ripetute pronunce, a partire dagli anni Settanta. In ogni caso, pur non pregiudicando in alcun modo la nostra appartenenza alla UE (purtroppo), si tratterebbe di una riforma di grande impatto anche e soprattutto sul piano simbolico.

5) Inserimento in Costituzione del “Quarto potere”, quello decisivo, ma omesso in sede di redazione della nostra Carta fondamentale: il “Potere Monetario”; espressione di una peculiare declinazione della sovranità statuale che va sotto il nome di “Sovranità monetaria”. Oggi –  in ossequio a quanto meritevolmente stabilito dall’articolo 117 (unico aspetto condivisibile della riforma del titolo V della Costituzione del 2001) – l’esclusiva “legislativa” in materia di “moneta” spetta allo Stato. Deve essere inserito un articolo nella Costituzione in cui si proclama, a futura e imperitura memoria, che il “Potere monetario” – in particolare il potere di battere una “moneta di Stato” – compete, appunto, in esclusiva allo Stato italiano,  rimandando alla legislazione ordinaria e secondaria per la definizione dei dettagli operativi. Non ci soffermiamo, in questa sede, sulla piena compatibilità di una moneta di Stato anche rispetto all’euro e ai trattati europei, essendocene esaustivamente occupati in precedenti pubblicazioni. Una tale riforma, non solo legittimerebbe sul piano costituzionale l’esercizio effettivo della “sovranità monetaria” da parte dello Stato, ma sarebbe compatibile sia con il Trattato di Maastricht sia con il Trattato di Lisbona. In attesa, ovviamente, che maturino le condizioni per l’uscita dalla UE e/o dall’euro

6) Nazionalizzazione di Banca d’Italia. È ora di por fine alla stucchevole e contraddittoria situazione per cui abbiamo una Banca sedicente “nazionale” formalmente definita “Istituto di diritto pubblico” (e tale da considerarsi, a tutti gli effetti, sul piano giuridico), ma in realtà partecipata per la gran parte da banche private. Banca d’Italia deve tornare ad essere un “ente pubblico”, a tutti gli effetti, nella piena disponibilità dello Stato Italiano che, su di essa, deve esercitare il suo completo controllo. Va licenziata una legge analoga alla numero 262 del 28.12.2005 la quale, al comma 10 dell’articolo 19, prevedeva l’obbligatorio ri-trasferimento (in capo allo Stato o ad altri enti pubblici) – da portarsi a termine nell’arco di un triennio – delle quote di Bankitalia detenute da privati. Tale legge venne abrogata dal Decreto Legge nr. 133/2013 (Imu-Bankitalia) che si premurò anche di abrogare l’articolo 20 del Regio Decreto nr. 375/1936; quest’ultimo, a sua volta e ab origine,  stabiliva che la maggioranza del capitale di Bankitalia dovesse sempre appartenere a enti pubblici. Questa operazione consentirebbe anche di risolvere definitivamente la questione dell’Oro di Bankitalia. Se Bankitalia “detiene” l’oro e lo Stato “possiede” Bankitalia, allora allo Stato pertiene e appartiene anche l’oro. Fine di ogni capziosità e sofisma volti a dimostrare il contrario, in punto di diritto.

7) Creazione di una rete nazionale di banche pubbliche. Oggi può considerarsi interamente pubblico  solo MCC-Medio Credito Centrale, mentre lo sono solo in parte la Cassa Depositi e Prestiti (all’82%) e Montepaschi di Siena (al 68%). Vanno istituite e create altre banche totalmente pubbliche in modo da poter usufruire di quella “arma non convenzionale” di cui dispone (e che, ad ogni effetto, utilizza) la Germania. Ci riferiamo, ovviamente, alla KFW e alle centinaia di banche pubbliche locali radicate sul territorio dei Lander sui cui può contare lo stato tedesco. Detti istituti potrebbero accedere (ai sensi dell’articolo 123, secondo comma del TFUE) ai generosissimi finanziamenti (oggi a tassi negativi) concessi dalla BCE al sistema bancario pubblico e privato. Tali “iniezioni di liquidità” potrebbero essere utilizzate sul mercato secondario anche per l’acquisto di BTP –  nei momenti di fibrillazione dei mercati e di ondate speculative a danno del nostro Paese – in modo da possedere uno “scudo” in funzione anti-spread proprio lì dove lo spread si genera.

8) Ampliamento del numero delle attuali banche “dealers”, ovverossia degli istituti di credito autorizzati dal MEF a partecipare, in esclusiva, alle aste dei titoli di Stato di nuova emissione. In particolare, oggi sono autorizzati diciassette istituti tra i quali troviamo la creme della finanza internazionale (da Deutshe Bank a Goldman Sachs, da JP Morgan a Morgan Stanley). Dovrebbero essere inserite, nella lista – oltre a MPS che già ne fa parte –  MCC e tutte le  altre banche pubbliche di nuova costituzione. Esse potrebbero, così, partecipare alle aste primarie e concorrere alla formazione del “prezzo” delle nuove emissioni di titoli del debito pubblico, onde calmierare il rialzo eccessivo dei rendimenti. Soprattutto in periodi di recrudescenza dello spread sui mercati secondari. Un ampliamento dello spettro degli operatori “dealers”, inoltre, renderebbe meno agevole la possibilità di operazioni di cartello favorite invece, con tutta evidenza, da un numero troppo esiguo di operatori.

9) Modifica del sistema di collocazione dei BTP cosiddetto delle “aste marginali”, introdotto con il “divorzio Bankitalia-Tesoro” del 1981. L’autolesionistico modello attuale comporta che i titoli del debito italiano poliennali sono assegnati ai soggetti partecipanti all’asta applicando a tutti i titoli piazzati –  quindi, anche a quelli già aggiudicati a un tasso inferiore –  il rendimento più alto (e dunque meno vantaggioso per lo Stato). Anche le aste primarie dei BTP vanno ricondotte alla logica dell’asta competitiva.

10) Approvazione di una legge per la emissione di “biglietti di Stato” con circolazione limitata al territorio nazionale (e compatibile con l’euro) analoga alla legge nr. 171 del 1965 che rimase in vigore fino al 1998 – e quindi ben oltre l’adesione dell’Italia alla UE avvenuta con Maastricht 1992 –  quando essa fu abrogata per effetto del decreto legislativo numero 43 del 10 marzo di quell’anno. Ciò significherebbe affrancare l’Italia dalla dipendenza assoluta rispetto alla moneta della UE. Permetterebbe la circolazione, sia in formato cartaceo che in formato elettronico, di uno strumento di pagamento esclusivamente spendibile sul territorio nazionale e tale da ridare slancio a un’economia asfittica come quella nostrana. Inoltre, tale moneta parallela, o se preferite “complementare” rispetto all’euro, non sarebbe afflitta dal “peccato originario” tipico di ogni “moneta debito”: il fatto, cioè,  di essere gestita da una banca centrale così da gravare (fin dalla sua “insorgenza”) lo Stato di un debito di fatto inestinguibile. Infine, la “Nuova Lira”, o qualunque fosse il suo nome, rappresenterebbe una moneta già pronta all’uso (con cui gli italiani, insomma, avrebbero una certa dimestichezza)  nel caso di successivo Italexit.

11) Pratica attuazione dell’articolo 43 della Costituzione laddove si prevede, testualmente: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione [834, 835, 838 c.c.] e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Cosicchè, da un lato si riaffermi la autonomia (anche energetica e industriale) dello Stato rispetto al contesto internazionale, almeno nei limiti di quanto ciò è materialmente possibile nelle contingenti condizioni dello scenario geopolitico mondiale.  Dall’altro, si riduca la vergognosa dipendenza dello Stato italiano da “fornitori” stranieri (persino per la consegna di elementari dispositivi salvavita come i respiratori e le mascherine) tristemente sperimentata in occasione della epidemia Covid-19.

12) Modifica, in senso “estensivo” (cioè in melius),  degli articoli 5 e 139 della Costituzione. L’articolo 139 è la norma chiave della nostra Carta fondamentale. Stabilisce la immodificabilità del “forma repubblicana” dello Stato. Memori della tragica esperienza della dittatura fascista avallata dal Regno d’Italia, i padri costituenti vollero che almeno un principio cardine della nostra Costituzione fosse esente dalla possibilità di modifica, foss’anche attraverso la procedura di revisione costituzionale. E individuarono tale principio nella “forma repubblicana”, appunto, intesa non solo come configurazione istituzionale antitetica alla monarchia, ma anche come complesso di tutti i principii supremi iscritti nei primi 54 articoli della Carta. Gli stessi principii, per intenderci, palesemente violati per una serie di innumerevoli ragioni (che non possiamo qui approfondire) dai Trattati europei. A questo punto, si potrebbe pensare a un “arricchimento” dell’articolo 5 laddove si legge che  “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”, integrandolo come segue: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; è, altresì, indisponibile a qualsiasi forma di aggregazione sovra-statuale e transnazionale di natura  federativa o confederativa, ovvero di qualsivoglia altra natura, tale da implicare cessioni di sovranità in violazione dell’articolo 11”. Dopo di che, l’articolo 139 andrebbe, a sua volta, “rafforzato” come segue: “La forma repubblicana, così come specificata dall’articolo 5, non può essere oggetto di revisione costituzionale“. Questa modifica renderebbe definitivamente inattuabile, per via costituzionale, l’obiettivo (quasi mai apertamente confessato) degli europeisti odierni: e cioè la confluenza dell’Italia negli “Stati Uniti d’Europa”. Se poi, per ipotesi, la riforma non dovesse ottenere il benestare dei due terzi del Parlamento –  e fosse quindi necessario ricorrere al referendum confermativo previsto dall’articolo 138 della Costituzione –  ciò consentirebbe di raggiungere, comunque, due risultati. In primis, stanare coloro che vogliono rinunciare alla sovranità nazionale (tradendo la Costituzione vigente). In secundis, consentire ai cittadini di potersi finalmente pronunciare con un grande referendum popolare sulla questione “occultata” degli U.S.E. Si tratterebbe di un evento storico, per la nostra democrazia, paragonabile per importanza solo al referendum tra Monarchia e Repubblica del 1946.

Rispetto ai suelencati dodici punti, e soprattutto rispetto all’ultimo, le prevedibili, e comprensibili, obiezioni verteranno tutte intorno a un tema: è una forzatura giuridica. Può darsi, e il dibattito è aperto. Ma siamo, a tutti gli effetti, entrati in una fase nuova della storia del nostro Paese e del mondo. Ci siamo resi conto del rischio che abbiamo corso, negli ultimi anni, di perdere definitivamente l’autonomia sovrana “regalataci” dai costituenti nel secondo dopo-guerra. Allora quei rischi erano rappresentati dal fascismo e dai totalitarismi. Oggi, invece, da forme più subdole  di “torsione eversiva” e di “deformazione” della democrazia rappresentativa e della sovranità statuale che vanno fermate ad ogni costo giuridicamente lecito: anche attraverso l’introduzione di nuovi “scudi” giuridici, coraggiosi e innovativi, sulla scia di quello originariamente concepito e messo per iscritto nell’articolo 139 della Suprema Carta.

In altri termini, gli italiani del 1946 individuarono nella “forma repubblicana” le colonne d’Ercole della nostra democrazia, da non oltrepassare mai, per nessuna ragione. Noi le individuiamo anche nella intangibilità della sovrana indipendenza statuale, pure sotto il profilo dell’integrità territoriale, così come cristallizzatasi all’atto della fondazione della Repubblica.  In ogni caso, quand’anche volessimo derubricare le suindicate proposte   alla stregua di “forzature giuridiche”, non sarebbe una valida ragione per rigettarle senza una preliminare ponderazione. È certamente vero, infatti, che le forzature, più o meno intense, fanno parte di ogni tradizione giuridica ed è vero che noi viviamo tempi eccezionali che richiedono iniziative straordinarie. Ed è, infine, altrettanto innegabile che il nostro passato, più o meno recente, è letteralmente lastricato di “cattive intenzioni” sotto forma di ben più serie, e distorsive, forzature giuridiche reiterate e dolose, ciascuna delle quali si è situata ben oltre i limiti della costituzionalità. Ad ogni buon conto, non ne faremmo una questione “di stato”. Piuttosto, una questione di definitiva e irrevocabile riaffermazione della libertà e indipendenza “dello Stato”.

Dedicato a tutti coloro a cui sta ancora a cuore l’Italia.

Avv. Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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