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In morte di Pablito

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È morto Paolorossi. Paolorossi è vivo. Anzi, non lo è mai stato come nel momento in cui tutto il mondo del calcio – e ben oltre che il mondo del calcio –  lo piange. E allora viene da chiedersi perché. Personalmente, sto soffrendo come tutti. E, come tutti, mi accorgo di soffrire più di quanto avrei immaginato. Sarà che ero ragazzino, e l’estate più dolce, lunga (“immortale”) della mia vita la vissi scandita dai suoi gol al Mundial di Spagna. Può essere.

Chi ha vissuto quei giorni li ricorda ancora come qualcosa di inspiegabile: il rotondo manifestarsi dell’impossibile su un campo di calcio. L’epifania, inattesa, di una inattesa felicità. Barcollando come acrobati, in quelle afose serate di luglio, sul crinale tra l’ordinario e il sogno. Perchè l’epopea di Spagna ’82 aveva allora, e conserva ancora, i connotati di una fiaba, di una “storia”.

Così innaturalmente perfetta, così precisamente compiuta, da rispettare ogni singolo canone dei drammi a lieto fine: una squadra scassata di protagonisti perdenti, un eroe già abbattuto dagli scandali e prosciugato nel fisico, l’ostilità unanime e cattiva della stampa, un vecchio condottiero fiducioso, confidente e fedele (oltre ogni misura) al “suo” ragazzo, gli avversari invincibili alle porte, la resurrezione improvvisa e quei gol in rapida successione: tre, due, uno. Proprio come scoppi di petardi a scandire un countdown. E la luce fu, all’uscita del tunnel. E l’apoteosi del vivere tutti “felici e contenti”. Per sempre.

È sufficiente tutto questo a spiegare quanto male ci ha fatto l’addio di Pablito? Forse no. Forse c’è dell’altro. E non basta dire che è la sua “umanità” ad averci fatto tutti innamorare di quel centravanti  mingherlino. L’umanità è un concetto troppo vago, come una polaroid sfocata che – per rendere l’insieme – si perde i dettagli. Anche Maradona era profondamente “umano”, come Paolo, ma non nello stesso modo. L’umanità di Paolorossi – dovessimo sugellarla in una parola – era una cosa molto sana, molto piccola, molto rara: umiltà.

Paolo Rossi era uno straordinario esempio di umiltà. Un’umiltà resa  evidente, bella e radiosa perché  rapportata alla “dimensione” gigantesca del personaggio. Dopo quella coppa, Rossi è stato a lungo, e forse è tuttora, l’italiano più conosciuto al mondo. Era l’indiscusso protagonista e primattore della favola di cui sopra. Aveva avuto tutto quanto si possa chiedere al dio della benevolenza, del successo, della gloria. E del calcio.

Ma, a dispetto di ciò, Paolorossi non riusciva ad essere altro che il semplice, e dolce, e amabile ragazzo di provincia di sempre. E oggi il suo modello ci fa piangere anche per quanto è in controtendenza con i valori attuali. Un’epoca abitata da troppi presuntuosi, boriosi, vanagloriosi palloni gonfiati. E tanto più gonfiati quanto meno ne avrebbero motivo. Così come Rossi era tanto più umile quanto più lievitavano le sue  ragioni di farsi superbo. È un mondo orribile, se visto con gli occhi che avevo, quell’estate.

Ecco la seconda ragione per cui Rossi ci fa piangere. Ci riporta non solo al cuore ardente (“immortale”) della nostra storia personale, ma a quel bivio della Storia collettiva che ci avrebbe condotti fino a qua. Dove non avremmo mai voluto arrivare, se ci avessero raccontato com’era. Magari c’entra anche il fatto che è il simbolo di una festa italiana, popolare, nazionale. Tre aggettivi che suonano come bestemmie in chiesa in un secolo senza confini, nel trionfo di una uniforme, e massificata, globalità. Nostalgia struggente dell’Ottantadue. In morte di Pablito.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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