CulturaPolitica
Il fallimento dell’ideologia woke: quando l’inclusione diventa esclusione e il merito una colpa (di Antonio Maria Rinaldi)
Il fallimento dell’ideologia Woke: Rinaldi spiega perché il merito non può essere una colpa L’analisi di Antonio Maria Rinaldi sul tramonto del wokeismo: da promessa di inclusione a dogma che cancella il merito e la libertà individuale.

L’ideologia woke si è affermata in larga parte dell’Occidente come presunta nuova frontiera del progresso morale. Nata con l’obiettivo dichiarato di contrastare discriminazioni e ingiustizie reali, essa ha progressivamente esteso il proprio raggio d’azione fino a investire linguaggio, relazioni sociali, istituzioni, processi decisionali e persino la rilettura della storia. Nel tempo, la sinistra internazionale l’ha assunta non più come una delle possibili sensibilità culturali, ma come paradigma normativo, elevandola a criterio di legittimazione politica e morale. Questa saldatura, unita alla crescente radicalizzazione del fenomeno, ha reso il suo fallimento non contingente, ma strutturalmente prevedibile.
È necessario distinguere, innanzitutto, tra le istanze originarie – spesso legittime – e la loro trasformazione ideologica. Il problema non risiede nella tutela delle minoranze o nel riconoscimento delle pari opportunità, ma nel modo in cui tali obiettivi sono stati piegati a una visione dogmatica e identitaria, incompatibile con i principi fondanti delle democrazie liberali.
Il primo nodo critico è la sostituzione dell’individuo con l’identità di gruppo. La persona non viene più valutata come soggetto autonomo, responsabile e dotato di capacità proprie, ma come membro di categorie predefinite: genere, etnia, orientamento, identità percepita. In questo schema, l’uguaglianza davanti alla legge e l’universalismo dei diritti vengono progressivamente svuotati, rimpiazzati da una gerarchia morale fondata sulla presunta condizione di vittima. I diritti cessano di essere patrimonio comune e diventano strumenti di riconoscimento selettivo e di potere simbolico.
Questa logica ha prodotto effetti particolarmente evidenti negli ambiti scolastici, universitari e professionali. In tali contesti, il wokeismo ha smesso di essere un orientamento culturale per trasformarsi in un codice etico implicito ma vincolante. L’adesione a un determinato linguaggio, a specifiche narrazioni e a rituali simbolici è divenuta una condizione informale di accettabilità sociale e lavorativa. Il dissenso, anche quando espresso in modo argomentato e civile, viene interpretato come segnale di inaffidabilità morale o culturale.
Il punto più critico di questa deriva è il progressivo indebolimento del principio di meritocrazia. In numerose istituzioni pubbliche, aziende private e organizzazioni complesse, criteri come competenza, esperienza e risultati sono stati affiancati – e talvolta subordinati – a un fattore non dichiarato ma decisivo: la conformità ideologica. Il mancato allineamento al paradigma woke è diventato, in molti casi, un elemento penalizzante nei percorsi di carriera, nelle selezioni e negli avanzamenti professionali.
Professionisti qualificati sono stati esclusi da opportunità e incarichi non per carenze oggettive, ma per posizioni culturali non conformi. In alcuni ambienti, il merito stesso è stato guardato con sospetto, soprattutto quando non accompagnato da una corretta adesione simbolica all’ortodossia dominante. Si è così affermata una forma di discriminazione rovesciata, tanto più pervasiva perché giustificata in nome della virtù.
A questo clima hanno contribuito in modo determinante i media. Informazione, intrattenimento e comunicazione commerciale hanno interiorizzato un canone ideologico rigido, spesso più per timore di sanzioni reputazionali che per autentica convinzione. Oggi è difficile imbattersi in una campagna pubblicitaria che non esibisca una rappresentazione identitaria sistematica e artificiale, con una sovra-rappresentazione delle minoranze elevata a requisito di legittimazione morale del prodotto. Non si tratta più di riflettere la complessità della realtà sociale, ma di aderire a un modello prescrittivo, nel quale l’assenza di determinati simboli viene immediatamente interpretata come colpa.
In questo contesto, aziende e media non scelgono liberamente il proprio linguaggio comunicativo, ma si adeguano per evitare accuse, boicottaggi o delegittimazioni pubbliche. Il risultato è una crescente uniformità narrativa, una perdita di autenticità e una progressiva erosione della credibilità, percepita ormai anche da ampi settori dell’opinione pubblica.
Il problema, dunque, non è l’esistenza di valori, ma la loro imposizione ideologica. Il wokeismo non propone un confronto: lo chiude. Non persuade: squalifica. Il dissenso viene moralizzato e trasformato in colpa, mentre la libertà di pensiero è ridotta a deviazione tollerata solo entro confini prestabiliti. In questo quadro, la democrazia rischia di ridursi a una procedura formale, privata della sua sostanza pluralista.
Superare l’ideologia woke non significa arretrare sui diritti, né negare le ingiustizie esistenti. Significa, al contrario, ricostruire un equilibrio fondato su libertà individuale, universalismo giuridico e merito. Un’inclusione autentica non nasce dalla coercizione simbolica né dalla discriminazione compensativa, ma dal rispetto della persona come individuo, dalla responsabilità personale e da regole comuni applicate senza eccezioni ideologiche.
Il fallimento del wokeismo, aggravato dalla sua deriva conformista e anti-meritocratica, può così trasformarsi in un’occasione storica: quella di ristabilire una cultura pubblica più solida, pluralista e realmente democratica, capace di coniugare diritti, libertà e competenza senza sacrificare nessuno di questi principi sull’altare dell’ideologia.







You must be logged in to post a comment Login