Attualità
IL DISASTRO DELL’EURO: COME E’ STATO POSSIBILE? (di Mr. Budget)
L’euro costruito male ora mostra tutti i suoi difetti, dimostrando con tutta evidenza una moneta “che toglie più di quello che dà”. E l’Italia in tutta evidenza è il paese che è stato esposto ai rischi maggiori con l’ingresso nell’euro. Ma come siamo giunti a ciò? Per inconsapevolezza, errore di calcolo misto a fanatismo ideologico, azzardo calcolato?
Si tratta di un mix di tutte queste impostazioni.
Partiamo dalla teoria: in questi anni abbiamo assistito impotenti ad innumerevoli appelli dei maggiori economisti di fama internazionale (in particolare americani, che vivendo negli Stati Uniti conoscono bene cosa sia e come funzioni una vera unione monetaria ottimale) contro il progetto unitario dell’euro.
E’ ancora più grave, del punto di vista dell’analisi tecnica, la superficialità che si è resa evidente a posteriori dell’approccio alla moneta unica nonostante quanto la dottrina economica, segnatamente la teoria delle aree valutarie ottimali, aveva già da decenni evidenziato.
La teoria dell’area valutaria ottimale, Optimum Currency Area, descrive i criteri per i quali due o più stati possono avere dei vantaggi e delle convenienze economiche ad abbandonare le loro monete nazionali e ad adottare un’unica moneta comune. Questa teoria dimostra che l’Unione Monetaria Europea non poteva reggere a lungo perché non rispettava quasi nessuno dei criteri richiesti per la creazione di un’area valutaria ottimale.
Essa dimostra altresì ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno che quando l’intelligenza e la razionalità umana si mette al lavoro per descrivere il reale funzionamento dei fenomeni non c’è fanatismo di sorta che regga. Nonostante abbiano tutti i dati e le evidenze contro, i fanatici tecnocrati europei, i loro politici fantoccio, i giornalisti e gli economisti di regime a loro devoti sono infatti gli unici ad essere ancora convinti che l’euro va bene così com’è e indietro non si torna.
In verità la questione era stata sollevata nel 1953 da Milton Friedman, il quale sosteneva che in un’area o regione in cui si presentava una notevole rigidità sia dei salari che dei prezzi, sarebbe stato meglio adottare tassi di cambio flessibili fra i paesi interessati in modo da riuscire a realizzare contemporaneamente gli obiettivi di equilibrio interno (piena occupazione, stabilità dei prezzi etc) e di equilibrio esterno (pareggio della bilancia dei pagamenti con l’estero). Friedman affermava che una piccola variazione spontanea o intenzionale (svalutazione competitiva esterna) del tasso di cambio della moneta nazionale sarebbe stata molto più efficace di una revisione di migliaia di salari e prezzi individuali.
Il difetto genetico dell’euro sta tutto qui. Le fazioni dei pro-euro e dei contro-euro si dibattono con argomentazioni spesso sterili e superficiali, ma se volessimo seriamente rifarci appunto al modello scientifico originario di Mundell e alle sue successive integrazioni, non potremmo non notare innanzitutto e curiosamente come l’eurozona non rispetti quasi nessuno dei criteri richiesti per rendere efficace un’unione monetaria ottimale.
Nell’eurozona infatti vi è scarsa flessibilità dei prezzi e dei salari, anzi si assiste spesso alla tendenza opposta di alcuni paesi, primo fra tutti la Germania, ad adottare politiche interne di contrazione rigida dei salari e dei prezzi per ricevere qualche vantaggio competitivo in termini commerciali nei confronti dei paesi alleati. A causa delle ampie divergenze linguistiche e culturali nell’eurozona si verifica una ridotta e difficoltosa mobilità dei lavoratori fra i vari paesi aderenti all’unione monetaria. Sempre a causa di diverse ragioni storiche e culturali, legate anche alle differenti abitudini di spesa e dei consumi dei cittadini europei, non è mai esistita e mai esisterà all’interno dell’eurozona una convergenza dei tassi di inflazione e alcuni paesi, sempre in testa la Germania, hanno beneficiato della loro lunga tradizione mercantilista di privilegiare le esportazioni a danno della domanda interna, mantenendo costantemente l’inflazione al di sotto della media degli altri paesi europei e ricevendo ancora una volta vantaggi in termini commerciali.
Le vicende ultime dimostrano in sostanza quanto fallace sia stata l’illusione costruttivistica di una sinistra internazionale che ha costruito un monstrum economico fondato sulla fallace credenza che fatta la moneta avremmo visto le economie reali “magicamente convergenti”.
Oggi è possibile un’operazione-verità sulla moneta unica, sui danni prodotti dalla fretta di introdurla, fondata su parametri “stupidi”, con di più una “blindatura” del meccanismo che di fatto impedisce ripensamenti.
Il primo vero errore di calcolo sta nelle modalità con cui l’Italia entrò nell’euro. Quell’operazione, condotta da Prodi e Ciampi, fu propagandata come un merito della “illuminata” classe dirigente di quegli anni. In realtà, come svela l’ex Ministro Tremonti nel suo ultimo libro, furono le industrie tedesche a premere sull’acceleratore: temevano la concorrenza della manifattura italiana, seconda in Europa e quinta nel mondo, resa più pericolosa dalle svalutazioni competitive della lira rispetto al marco.
«Nel corso di una riunione “ad hoc” sul lago Lemano», scrive Tremonti, gli industriali teutonici convinsero i loro banchieri a favorire a ogni costo l’ingresso dell’Italia, «intrappolata e spiazzata dalla nuova moneta che si sarebbe dimostrata troppo forte per un’economia debole». Ma la debolezza dei conti pubblici costrinse a spericolate operazioni sui «tuttora segretissimi derivati per l’Europa» cui accenna un allegato dell’ultima legge di Stabilità, in modo da contabilizzare subito le entrate e occultare le uscite, regalandoci così un cambio lira/euro molto penalizzante.
Anche la famosa lettera della Bce del 5 agosto 2011 nasconde retroscena mai rivelati. Tremonti fa risalire l’operazione alla ostinazione con cui il governo italiano si opponeva al nuovo Fondo salva-stati, «contrario al nostro interesse nazionale». Le nostre banche possedevano il 5 per cento dei debiti dei Paesi a rischio (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna), ma dovevano contribuire con il 18 per cento del fondo. L’Italia avrebbe accettato soltanto in cambio degli euro-bond, mezzi finanziari per ridurre i rischi della speculazione internazionale. «Il colpo di manovella fu dato con “l’illuminata” costruzione di una falsa catastrofe»: rimangiandosi i complimenti al governo Berlusconi di pochi giorni prima, l’improvvisa lettera scatenò la valanga finanziaria dello spread.
Il passo era breve per il successivo governo Monti che ci costrinse a pagare il conto delle perdite bancarie degli altri, comunque nell’ambito della camicia di forza del fiscal compact che ci impone, allo Stato, per vent’anni tagli di spesa pubblica più o meno per 40 miliardi di euro ogni anno.
È tutto questo che ha prodotto il vituperato antieuropeismo: «Non sta scritto da nessuna parte che il “populismo” in arrivo in Europa e su vasta scala sia un male politico», un movimento che «per dinamica e dimensione è già europeo» e che «per la sua parte maggiore, è pacifico e civile e, per ora, ancora muto. Ma forte perché popolarmente diffuso». Uscire dall’euro non si può: Tremonti ne specifica i pochi benefici e gli altissimi costi. Si può però fare dell’altro, una ricetta già proposta dall’ex ministro: «Interrompere l’orgia legislativa in atto e di nuovo garantire la libertà: tutto è libero, nel campo economico, tranne ciò che è espressamente vietato».
Cosa dire della cornice di salvaguardia finanziaria della costruzione dell’euro, il firewall denominato ESM?. Il sostegno finanziario ai paesi in difficoltà dell’area Euro, connesso alla gestione dell’eurocrisi, è già costato ben 50 miliardi il che rende l’Italia, complessivamente, la nazione europea che ha contribuito di più; infatti se è vero che la quota di partecipazione di Germania e Francia è superiore, è altresì vero che l’Italia lo deve finanziare emettendo debito a tassi del 4-5%, contro l’1-2% dei Franco Tedeschi. Appare quindi evidente che l’Italia sia complessivamente la nazione europea che fa i maggiori sforzi.
Se l’opinione di Tremonti apre troppo “di parte”, chi vuole legga quello che scrive Paolo Savona. La crisi greca conferma che l’architettura istituzionale europea è difettosa e le politiche economiche che da essa promanano non consentono di attuare gli obiettivi di sviluppo dettagliatamente previsti dall’art. 2 del Trattato di Lisbona. Questa è la tesi di fondo del pamphlet J’accuse, nel quale Paolo Savona chiama in causa Juncker, Draghi, Padoan, Visco, il Governo italiano e la Banca d’Italia accusandoli della miopia con cui affrontano la crisi europea e invitandoli a prendere atto del vero problema e a impegnarsi a cambiare i modi d’essere delle istituzioni europee per la sopravvivenza dell’euro e dello stesso mercato comune. Una particolare sollecitazione è rivolta alla Banca d’Italia che ha perso il suo ruolo storico di orientamento delle scelte del Paese difendendo ossessivamente le politiche di riforma europee per rendere la nostra economia più competitiva, accettando senza reagire che un eccesso di risparmio pari a ciò che manca alla domanda interna, resti inutilizzato per vincoli posti alle nostre scelte dalle interpretazioni restrittive dei Trattati europei.
Egli muove tre J’accuse ai Governi che si sono succeduti dal 2008, data di inizio della crisi finanziaria mondiale: quella di aver trascurato di riaccendere il secondo importante motore della crescita italiana, le costruzioni, come hanno fatto gli Stati Uniti e la Germania; quella di considerare la crescita reale come il principale problema italiano, mentre lo è la spaccatura economica e politica tra il Nord e il Sud; quella di aver aumentato imposte e tasse per sanare la finanza pubblica, mentre le ha usate per accrescere la spesa pubblica primaria. Completano il quadro quattro lettere aperte destinate ai protagonisti della crisi – Juncker, Draghi, Visco, Padoan – e una rivolta al Governo e alla Banca d’Italia, invitandoli a cambiare obbiettivi perseguiti e strumenti usati al fine di invertire la traiettoria verso il sottosviluppo del Paese.
Ne discende una lettera aperta a Junker: l’euro va reso irreversibile, ma non nocivo. Savona accusa Junker per il fatto che non ha sentito la necessità di smentire il vice presidente del Parlamento Europeo, il ben noto Olli Rhen, che ha sostenuto che la partecipazione all’euro è irrevocabile per chi ha deciso di farne parte. Meglio così, perché è falso, tra i tanti fatti circolare dalle istituzioni europee nel tentativo di tagliare ogni discussione – e quindi ogni negoziato – su una indispensabile riforma dell’architettura istituzionale della moneta europea. L’art.140 paragrafo 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, nella versione datane a Lisbona, non prevede l’irrevocabilità dell’euro, ma del rapporto di cambio stabilito all’atto della scomparsa della moneta nazionale: non si può cambiare questa parità se non uscendo dall’euro. Il problema, quindi, è quali conseguenze possono derivare al paese che decide di abbandonare l’eurozona: non è difficile prevedere che nascerebbe un contenzioso legale internazionale difficile da gestire, ma non impossibile da condurre; comunque indispensabile.
Se così fosse la Commissione, questa volta con il coinvolgimento del Parlamento, dimostrerebbe la sua ennesima incapacità di capire quale sia il problema e come si può risolvere. Gli Stati Uniti abbandonarono la convertibilità del dollaro in oro e convocarono un negoziato a Washington da cui emerse lo Smithsonian Agreement, che consentì di affrontare la loro traumatica decisione, ma ribadì il diritto sempre riconosciuto ai paesi firmatari di un Trattato internazionale di invocare una clausola di salvaguardia. Naturalmente il giudizio che i mercati e gli altri paesi danno di una tale decisione dipende dalla fondatezza della scelta: quella degli Stati Uniti era il “paradosso di Triffin”, ossia la possibilità di convertire crescenti ingenti quantità di dollari in oro a prezzi fissi.
Per l’euro credo basti il “paradosso della deflazione con disoccupazione” per un Trattato che aveva come presupposto di ottenere l’opposto; sulla natura paradossale della crisi creata da istituzioni sbagliate esiste un consenso crescente (ma tardivo contrariamente al paradosso di Triffin) da parte degli economisti ed analisti. Se l’Unione Europea non decide di dare vita a uno Stato sovranazionale e non intende svolgere un ruolo attivo nella soluzione della crisi greca, insistendo nell’invocare invece vincoli e inviare minacce di punizioni, la situazione potrebbe uscire fuori controllo. Ovviamente per colpa della Commissione e della miopia della Germania e di pochi altri paesi che la pensano nello stesso modo che non intendono cambiare architettura istituzionale dell’Europa.
La Commissione Europea non ha diritto di legiferare in materia di Trattati. Può dire la sua, ma non modificarne il contenuto. Se non è d’accordo sul testo non dica falsità come quella che l’euro non sia revocabile come se fossero scritte su tavole di pietra come le leggi di Mosè. Convochi invece immediatamente una riunione dei Capi di Stato e di governo per avviare una modifica dei contenuti dei Trattati (sarebbe un Atto Unico n. 2). Se ha soli dubbi interpretativi, ricorra alla Corte di giustizia europea per una corretta interpretazione. Tuttavia, qualsiasi sia il responso, ogni paese membro dell’euroarea manterrebbe il diritto di uscire dal sistema, se lo valuta necessario per tutelare i suoi interessi che l’UE non tutela. L’oggetto dei trattati è pace e benessere. E sia ben chiaro che questi obiettivi non sono esplicitati in modo generico negli accordi europei, ma in modo dettagliato. Si rilegga per favore l’art. 2 del Trattato di Lisbona che dovrebbe governare la sua azione.
Se le borse mondiali reagiscono negativamente alla sola ipotesi di un’uscita della Grecia dall’euro, ossia senza che lo abbia ancora richiesto, e se la Cancelliera Merkel ha sentito la necessità di escludere che la Grecia possa farlo, come sembrava pensare il contrario dalle dichiarazioni di un portavoce del suo Governo, sono la conferma che la Grecia può farlo, ma lo si vuole escludere, perché l’evento, se non governato, può creare problemi ben più gravi alla stabilità dell’intera UE e della stessa Germania.
L’annuncio che la Merkel visiterà Cameron per prevenire un’uscita dall’Unione indica che il meccanismo si è messo in moto e si cerca di frenarlo come al solito a chiacchiere e con accordi o concessioni bilaterali. Se l’UE continua a dare “aiutini” ai paesi in difficoltà, come finora fatto, senza risolvere il problema di fondo dell’incapacità di affrontare crisi come quella della Grecia a causa dell’inadeguatezza dello Statuto della BCE e della sua visione di un’Europa matrigna, ottiene solo il risultato di tamponare la situazione, ma lascia aperto il ripetersi delle stesse crisi fino alla deflagrazione del sistema.
L’apertura ufficiale di un negoziato per individuare i modi per rendere l’euro irreversibile, ma non nocivo, e il suo cambio con le monete nazionali che sono in esso confluite irrevocabile è ormai indispensabile per placare definitivamente i giusti timori del mercato sulla moneta europea. Un passo importante appare quello di autorizzare la BCE a operare liberamente e in modo indipendente sul mercato, come chiede Draghi, in titoli di Stato, ma non ancora per il cambio dell’euro, come invece sarebbe necessario. Può l’Europa tollerare, ad esempio, che la Svizzera acquisti euro (come peraltro fa o faceva la Cina) fissando il cambio con il franco svizzero a 1,20, con la BCE che assiste passiva a che un’altra banca centrale o un paese estero fissino aspetti della sua politica monetaria e dei terms of trade dell’eurozona?.
Come ha fatto notare bene qualcuno, la stupidità consiste nel ripetere sempre le stesse cose e attendersi ogni volta risultati diversi: ecco l’ottusità ideologica dei tecnocrati europei e dei loro politici e politicanti fantoccio, che spesso sfocia in puro fanatismo, consiste appunto nel ripetere come un mantra alcune convinzioni dottrinali (euro, euro, euro, austerità, austerità, austerità, privatizzazioni, liberalizzazioni, etc) e mettersi poi religiosamente in attesa che gli effetti siano come per magia miracolosi: ma se l’austerità, come tristemente notato, non ha funzionato in Grecia e in generale nella storia della civiltà umana, per quale motivo dovrebbe funzionare in Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia? Sono pazzi tutti gli economisti che da ogni parte del mondo accusano di scarsa lungimiranza la tecnocrazia europea, oppure i pazzi sono proprio questi tecnocrati dall’aspetto così rispettabile e imperturbabile ma affetti da una preoccupante fissità nello sguardo?
Concludo con una frase del grande economista irlandese Wynne Godley, che nel 1992 cercava di mettere in guardia i propri concittadini sui pericoli della moneta unica e sintetizzando bene quali sono i mali dell’eurozona e i motivi per cui il crollo dell’euro è diventato oggi un evento più che mai auspicabile, ammoniva:
“La incredibile lacuna nel programma europeo è che non c’è nessun progetto di qualcosa di analogo, in termini comunitari, di un governo centrale… Se un paese o regione non ha alcun potere di svalutare, e se non può beneficiare di un sistema di trasferimenti fiscali che tendano ad eguagliare le condizioni, allora non c’è nulla che possa impedirgli di soffrire di un processo di declino cumulativo e definitivo che alla fine farà sì che l’emigrazione sia l’unica alternativa alla povertà e all’inedia.”
Mr. Budget
Grazie al nostro canale Telegram potete rimanere aggiornati sulla pubblicazione di nuovi articoli di Scenari Economici.