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Il diritto all’aborto e l’aborto dei diritti

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Nell’Italia antifascista capita che un esponente del Governo debba abbandonare un convegno e che il convegno venga sospeso per l’irruzione berciante e prepotente di una minoranza non silenziosa. Una bella manganellata antifascista contro il già malmesso articolo 21 della Costituzione. L’episodio delle contestazioni contro il ministro Roccella, agli Stati generali della natalità (dove si dibatteva di tutela della vita e delle nascite) è una strepitosa, forse irripetibile, fotografia degli “stati generali” della nostra civiltà. In particolare, di un aspetto su tutti che riguarda la presunta, e sedicente, parte più evoluta di tale civiltà; che sarebbe poi – a quanto ci raccontano – l’area “progressista”, laica, di sinistra, nel senso più penosamente “moderno” e meno antiquato del termine.

Per la precisione, quanto accaduto ci parla della caratteristica fondamentale, della quintessenza morale addirittura, di questo “campo largo” dei migliori. È una sorta di connotato genetico che potremmo liofilizzare nei vocaboli “doppiezza” e “mistificazione”. Essi, a loro volta, si traducono in una miriade di idee, rivendicazioni, piccole e grandi propagande, comportamenti collettivi e individuali. Tutti, o quasi, contrassegnati da una precisa filosofia che è, a suo modo, il pervertimento-sovvertimento del motto evangelico e della relativa regola aurea: fai agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Oppure, se preferite – parafrasando il celebre aforisma di Giovanni Giolitti – per i nemici i codici morali si applicano, per gli amici si interpretano. Ma, a ben vedere, neppure questo slogan (giacché troppo ironico e sfumato) è in grado di rendere giustizia al singolare fenomeno di cui ci stiamo occupando.

Nel nostro caso, gli esponenti del gruppo politico e sociale “eletto” non si limitano a interpretare, ma esigono addirittura di capovolgere (nei confronti dell’avversario di turno) le piattaforme valoriali che essi invocano a proprio favore. In questo senso,  gli strepiti censori contro i relatori del convegno sulla natalità sono esemplari. E proprio per questo, non vanno sottovalutati o, quantomeno, ne va evidenziata la portata e pregnanza sul piano simbolico. Ci riferiamo a tre grandi classici, dei veri e propri evergreen, della “mistica” progressista: 1) la tutela delle minoranze; 2) la lotta contro il patriarcato; 3) la libertà di parola. Essi ci vengono ricordati, con un martellante e ipnotico tam tam, a giorni alterni e talora pure unificati. Non c’è giornata della memoria, dal 25 aprile al primo maggio, da Capodanno a San Silvestro in cui non ci venga inculcata l’importanza di proteggere la libertà (dai tutti i “fascismi”, ovviamente), di tutelare qualsiasi “ridotta” (di specie o di genere, di colore o di gusto) e, infine, di combattere l’infido patriarcato ottocentesco (che ancora vive e lotta insieme a noi).

Ebbene, se ci pensate, lorsignori avevano davanti agli occhi un’occasione d’oro per dimostrare di credere davvero, e sinceramente, in queste battaglie. E l’opportunità gliela aveva fornita proprio il convegno della Roccella. Partiamo dalla tutela delle minoranze. Esiste forse “minoranza” più inerme, vulnerabile, letteralmente impotente di quella costituita da un bambino nella pancia della sua mamma? No, neanche la femminista più esagitata potrebbe negarlo. Eppure, i manifestanti anti-natalità negano, orgogliosamente e spregiudicatamente, a questi nascituri precari financo il diritto che la loro madre possa cambiare idea rispetto alla scelta di abortirli. E pretendono di trasformare l’aborto in un diritto assoluto, prioritario anche al cospetto del primario diritto alla vita.

Quanto al “patriarcato”, esso consisterebbe – a dire di chi ha rilanciato questa parola fino a ieri obsoleta –  nella barbarie del sopruso e della prevaricazione maschile,  anzi “maschia”, contro l’altra metà del cielo. Quindi, sottesa a tale istanza, c’è l’idea che nessuno può e deve decidere per conto di un altro, tantomeno imporgli il proprio volere, le proprie scelte o, peggio ancora, i propri desideri. Eppure, questa rigorosa e condivisibile “dirittura” morale si piega duttile, anzi si spezza proprio, davanti al “matriarcato”: ciò che al maschio-padre-padrone dev’essere (giustamente) vietato, alla femmina-madre-matrigna viene pacificamente consentito. Quindi, esecrazione e disprezzo per il più antico e naturale dei sodalizi umani (la famiglia) in quanto fucina della sopraffazione maschilista basta sulla forza. Al contrario – in quel sodalizio ancora più antico che è la insondabile coesistenza e compresenza di due esseri umani, madre e figlio, in uno solo – il grande può fare ciò che crede del piccolo; senza che a quest’ultimo, derubricato a grumo di cellule privo di identità e diritti, sia neanche concessa l’ultima chance di un consultorio pro vita.

Infine, c’è la faccenda della libertà di parola. Sacra sempre, sacra ovunque, sacra comunque tranne quando ad esercitarla sono gli “altri”, quelli che la pensano diversamente. Quelli là vanno prontamente silenziati. E i nostri augusti intellettuali – pronti e scattanti nel farsi in quattro, e a fare un quarantotto, contro le liberticide pulsioni delle “destre” – si tacciono, attoniti e beoti (più beoti che attoniti, in effetti), davanti ai soprusi dei fascismi di sinistra.

Ma forse non è un caso, sapete. Il famoso “bi-pensiero” del romanzo “1984” – di cui i fatti in esame sono una fastosa declinazione – venne coniato del celebre George Orwell. Egli era amico di un altro famoso scrittore (Aldous Huxley) ed entrambi frequentarono (Huxley ne fu pure membro a tutti gli effetti) la Fabian society: un’organizzazione di ispirazione socialista (fondata nel 1884 con l’ambizione di forgiare un mondo nuovo) a cui l’odierno “mondo dei migliori” deve tantissimo. Lo stemma e simbolo dei fabiani è un lupo travestito da agnello: un’icona perfetta per i belanti predatori pronipoti di quella cultura. Dai loro frutti li riconoscerete.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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