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I sauditi tornano in Siria: contratti per gas e petrolio. Una mossa strategica per contenere l’Iran?

Svolta energetica in Medio Oriente: quattro colossi sauditi firmano con la Siria per riattivare gas e petrolio. Una mossa strategica di Riyadh per stabilizzare l’area e frenare l’influenza iraniana.

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L’energia come strumento di geopolitica. Riyadh firma accordi pesanti con Damasco per riattivare i campi siriani. Non è solo business: è il tentativo sunnita di stabilizzare l’area e controbilanciare l’influenza di Teheran.

Mentre l’attenzione globale è spesso distratta altrove, in Medio Oriente si muovono pedine fondamentali sullo scacchiere energetico e diplomatico. La notizia, passata forse troppo in sordina sui media generalisti, è di quelle che contano: la compagnia statale siriana, Syrian Petroleum Company (SPC), ha firmato una serie di accordi strategici con quattro colossi dell’energia saudita.

L’operazione, avvenuta sotto l’attenta supervisione del Ministero dell’Energia saudita, segna un punto di svolta. Non si tratta solo di estrarre idrocarburi, ma di fornire servizi tecnici, sviluppo e supporto operativo per rimettere in moto l’industria petrolifera e del gas in Siria, devastata da anni di conflitto.

I dettagli tecnici dell’accordo

L’intesa coinvolge quattro attori principali del panorama saudita, ognuno con un compito specifico per rianimare le infrastrutture siriane. Ecco come sono stati ripartiti i compiti in questo piano di rilancio industriale:

  • ADES Holding: Ha siglato un accordo che definisce i principi cardine per lo sviluppo, l’operatività e la produzione dei campi a gas. Il contratto tecnico finale coprirà cinque giacimenti specifici: Abu Rabah, Qamqam, North Al-Faydh, Al-Tiyas e Zumlat al-Mahar, lasciando aperta la porta ad aree aggiuntive in futuro.

    Giacimento di Abu Rabah

  • TAQA: Ha firmato un “Master Service Agreement” (MSA) con la SPC. L’obiettivo è fornire soluzioni integrate per la costruzione e la manutenzione di pozzi e campi, sfruttando tecnologie avanzate per migliorare i processi produttivi che, in Siria, sono fermi a tecnologie ormai obsolete.

  • ARGAS (Arabian Geophysical and Surveying Company): Si occuperà dell’esplorazione. Il contratto di servizio prevede rilevamenti sismici 2D e 3D. In pratica, devono mappare cosa c’è sotto il suolo per pianificare le future estrazioni, stabilendo un quadro di cooperazione a lungo termine.

  • Arabian Drilling: Si concentrerà sulla perforazione e sul workover (gli interventi di manutenzione straordinaria sui pozzi esistenti). L’azienda fornirà gli impianti di perforazione (rigs) necessari, gestirà le operazioni a terra e, aspetto fondamentale, si occuperà della formazione della forza lavoro locale.

La lettura geopolitica: oltre il barile di petrolio

Se da un punto di vista strettamente industriale siamo di fronte a un classico investimento per la riattivazione di asset sottoutilizzati o danneggiati, la lettura politica è ben più interessante. L’Arabia Saudita sta allargando i propri interessi in modo tangibile, portando capitali e know-how tecnico in un Paese che è stato per anni un paria della comunità internazionale occidentale.

Questa mossa ha un duplice scopo per Riyadh. Da un lato, si aiuta un governo (seppur controverso) a rimettersi in piedi economicamente, favorendo una necessaria stabilizzazione ai propri confini settentrionali allargati. Dall’altro, è una chiara manovra di contenimento. Investire pesantemente nelle infrastrutture critiche siriane significa sottrarre spazio di manovra all’espansionismo di Teheran.

Ogni dollaro saudita investito nei pozzi di Abu Rabah è un dollaro che la Siria non deve chiedere all’Iran. È il pragmatismo sunnita che cerca di arginare l’influenza sciita non con le armi, ma con i contratti, le trivelle e la formazione tecnica. Una strategia keynesiana di sviluppo infrastrutturale che potrebbe rivelarsi più efficace di anni di diplomazia sterile.

Restano da vedere i tempi di attuazione, ma il segnale è chiaro: i sauditi sono tornati a Damasco, e hanno portato gli ingegneri.


Domande e risposte

Perché l’Arabia Saudita investe ora in Siria? Riyadh sta perseguendo una politica di “zero problemi” con i vicini e mira a stabilizzare la regione. Investire nell’energia siriana permette di reinserire Damasco nell’orbita araba sunnita, riducendo la dipendenza del governo siriano dagli aiuti iraniani e russi. È una mossa di soft power economico per guadagnare influenza politica e sicurezza ai confini, oltre che un’opportunità di business per le proprie aziende di servizi petroliferi in espansione.

Qual è l’impatto economico per la Siria? Per la Siria è ossigeno puro. Il settore petrolifero e del gas è stato devastato dalla guerra e dalle sanzioni. L’arrivo di tecnologie avanzate (come quelle di TAQA) e di capitali sauditi permetterà di riattivare la produzione elettrica (che dipende dal gas) e l’export petrolifero. Questo potrebbe generare entrate valutarie fondamentali per la ricostruzione e per la stabilità interna, creando anche occupazione grazie ai programmi di formazione previsti da Arabian Drilling.

Ci sono rischi per le aziende saudite coinvolte? Sì, i rischi esistono. Operare in Siria significa muoversi in un contesto geopolitico fragile, con la presenza di sanzioni internazionali (principalmente occidentali, come il Caesar Act USA) che potrebbero complicare le transazioni finanziarie. Tuttavia, il fatto che i contratti siano stati firmati sotto la supervisione del Ministero dell’Energia saudita suggerisce che Riyadh abbia calcolato i rischi o abbia ottenuto garanzie diplomatiche tacite per procedere con questi investimenti “umanitari-industriali”.

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