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Gli euroscettici come ultima risorsa dell’Europa (di Antonio Maria Rinaldi)

Rinaldi: L’Europa sta fallendo e, paradossalmente, solo gli “Euroscettici” possono salvarla dall’oblio keynesiano.

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Per oltre trent’anni il dibattito europeo è stato dominato da un dogma tanto semplice quanto pericoloso: più Europa è sempre meglio. Chiunque osasse mettere in discussione l’assetto istituzionale, economico e monetario dell’Unione veniva immediatamente bollato come retrivo, populista o, nella migliore delle ipotesi, nostalgico di un passato che non può tornare. Eppure, osservando lo stato reale del continente, è proprio questa adesione acritica all’“Europa a tutti i costi” ad aver prodotto l’attuale crisi sistemica. Paradossalmente, saranno proprio i cosiddetti euroscettici a poter salvare ciò che dell’Europa è ancora salvabile.

L’errore originario risiede nella costruzione stessa dell’Unione economica e monetaria. L’euro non è stato il punto di arrivo di una convergenza reale tra economie omogenee, ma un atto politico che ha imposto una moneta unica a sistemi produttivi, fiscali e sociali profondamente diversi. I criteri di Maastricht, elevati a dogma intoccabile, hanno cristallizzato una visione statica dell’economia, fondata sull’ossessione per i parametri nominali – deficit, debito, inflazione – ignorando deliberatamente le dinamiche reali di crescita, produttività e occupazione.

Il risultato è un’Europa strutturalmente rigida, incapace di reagire agli shock se non attraverso politiche procicliche che aggravano le crisi invece di attenuarle. L’assenza di un vero bilancio federale, l’impossibilità per gli Stati di utilizzare in modo flessibile la leva fiscale e una governance economica iper-regolata ma priva di strumenti anticiclici hanno trasformato l’Unione in una macchina che disciplina, ma non sostiene; che punisce, ma non protegge.

A questa architettura si è sommata l’adesione quasi religiosa al modello economico tedesco. Un modello fondato su surplus commerciali strutturali, compressione dei salari, domanda interna debole e centralità dell’export. Ciò che può funzionare – entro limiti ben definiti – per un’economia manifatturiera altamente competitiva come quella tedesca è stato imposto come paradigma universale a Paesi con strutture economiche radicalmente diverse. Il Mediterraneo produttivo, fatto di PMI, servizi, turismo e mercati interni, è stato sacrificato sull’altare dell’ordoliberalismo.

Ma l’errore forse più grave dell’Europa è stato l’abbandono consapevole delle lezioni di John Maynard Keynes. La teoria keynesiana non è un’ideologia, ma una constatazione storica: nei momenti di crisi sistemica il mercato non si autoregola, e solo l’intervento pubblico può evitare la spirale recessiva. È stato così nel New Deal, nel secondo dopoguerra, nella crisi del 2008 e durante la pandemia. Ogni volta che il mondo è stato salvato dal collasso, lo è stato grazie a politiche espansive, investimenti pubblici e sostegno alla domanda aggregata.

L’Europa, invece, ha fatto esattamente il contrario: austerità durante le recessioni, tagli alla spesa produttiva, compressione dei redditi e demonizzazione del deficit proprio quando sarebbe servito. Ha ignorato Keynes non per errore di calcolo, ma per scelta ideologica, preferendo un modello che tutela la stabilità contabile a scapito della stabilità sociale ed economica.

Anche l’azione della Banca Centrale Europea, almeno fino alla svolta tardiva degli anni più recenti, si è mossa dentro questo schema: una banca centrale ossessionata dalla stabilità dei prezzi, ma indifferente alla disoccupazione di massa e alla distruzione di capacità produttiva. Solo quando il sistema ha rischiato il collasso si è intervenuti in modo pragmatico, dimostrando che la flessibilità – tanto demonizzata – non solo era possibile, ma indispensabile.

È in questo contesto che il ruolo degli euroscettici assume una valenza storica. Non come demolitori dell’Europa, ma come suoi potenziali riformatori. Essi hanno avuto il merito di smascherare la falsa neutralità delle regole europee, ricordando che dietro ogni parametro economico c’è una scelta politica e che l’attuale assetto favorisce alcuni Paesi a scapito di altri.

Salvare l’Europa oggi non significa invocare ancora “più Europa” in astratto, ma costruire un’Europa diversa: meno ideologica, meno rigida, più keynesiana nel senso più concreto del termine. Un’Europa che torni a usare la politica economica come strumento di stabilizzazione, non come mezzo di punizione. Se l’Unione avrà un futuro, sarà grazie a chi ha avuto il coraggio di mettere in discussione il dogma anche a costo di essere attaccato e denigrato a livello personale. Non ai custodi dell’ortodossia, ma a coloro che, etichettati come euroscettici, hanno indicato le crepe prima che l’edificio crollasse definitivamente.

*ex membro Commissione ECON ed AFCO del Parlamento europeo.

Domande e risposte

Perché gli euroscettici sono considerati una risorsa nel testo? Gli euroscettici non sono visti come distruttori, ma come figure necessarie per una riforma reale. Hanno avuto il coraggio di evidenziare i difetti strutturali dell’Unione Europea e dell’Euro quando l’ortodossia dominante li negava. La loro critica ha smascherato la natura politica e non neutrale dei parametri economici, indicando che l’attuale assetto favorisce alcuni Stati a danno di altri. Senza questa presa di coscienza critica, l’Europa rischierebbe il crollo definitivo per la sua incapacità di adattarsi alla realtà.

Qual è l’errore principale attribuito alla costruzione dell’Euro? L’errore fondamentale è stato creare un’unione monetaria come atto politico, imponendo una moneta unica a economie strutturalmente diverse senza una reale convergenza precedente. I criteri di Maastricht si sono focalizzati ossessivamente su parametri nominali come deficit e debito, ignorando l’economia reale, la crescita e l’occupazione. Questo ha creato un sistema rigido che, in assenza di un bilancio federale e di trasferimenti fiscali, reagisce alle crisi con politiche che peggiorano la situazione invece di risolverla.

In che modo l’Europa ha ignorato le lezioni di Keynes? L’UE ha scelto l’austerità e la stabilità contabile rispetto al sostegno della domanda aggregata, che è il cuore della teoria keynesiana per affrontare le crisi. Invece di aumentare la spesa pubblica e gli investimenti durante le recessioni per stimolare l’economia, l’Europa ha imposto tagli e compressione dei redditi. Questo approccio “prociclico” è contrario all’evidenza storica (come il New Deal o il dopoguerra), dove l’intervento statale è stato determinante per evitare il collasso del mercato che, da solo, non riesce ad autoregolarsi nelle crisi sistemiche.

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