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Politica

Giorgia Meloni ha dimostrato sul campo che la laurea non è una condizione per governare.  di Antonio Maria Rinaldi

Mentre in TV si discute dei titoli di studio, i dati finanziari premiano la stabilità del governo. Il confronto impietoso con i tecnocrati UE.

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Dall’attacco di Stefano Feltri a “Otto e mezzo” su La7 riemerge una vecchia tentazione elitista: confondere il possesso di un titolo accademico con la capacità di comprendere e guidare i processi economici. Ma la storia politica italiana ed europea, così come i segnali dei mercati, raccontano tutt’altro. La competenza di governo si misura sui risultati, non sui diplomi.

Di recente Stefano Feltri, giornalista economico ed ex direttore del quotidiano Domani, intervenendo nella trasmissione Otto e mezzo su La7, intervistato da Lilli Gruber, ha sostenuto che Giorgia Meloni “non sa niente”, definendola “il primo premier da sempre non laureato” e arrivando ad affermare che le mancherebbero perfino “i fondamentali che si insegnano alle elementari”. Un giudizio non solo tranchant, ma deliberatamente svalutativo, che sposta il confronto dal merito delle politiche alla delegittimazione personale. Ed è proprio questo slittamento che va contestato.

L’idea che la comprensione dell’economia dipenda dal possesso di una laurea non è solo logicamente fragile, ma rivela una concezione profondamente elitaria della politica. L’economia non è una scienza iniziatica riservata a una ristretta cerchia accademica: è una disciplina applicata, fatta di decisioni sotto vincolo, di priorità, di incentivi, di scelte che producono effetti reali sulla vita dei cittadini. La capacità di governare l’economia non coincide con la capacità di superare esami universitari, così come l’ignoranza non si certifica in assenza di un titolo.

La storia repubblicana italiana smentisce clamorosamente questa impostazione. Bettino Craxi e Massimo D’Alema non erano laureati. Nessuno, tuttavia, ha mai sostenuto seriamente che fossero incapaci di comprendere i meccanismi economici o di guidare politiche fiscali, industriali o di bilancio. Il giudizio storico su di loro — come è giusto che sia — si fonda sulle decisioni prese e sui risultati prodotti, non sui titoli appesi al muro.

Un presidente del Consiglio non è chiamato a redigere modelli macroeconomici o a impartire lezioni universitarie. È chiamato a scegliere, a indirizzare, a selezionare competenze, a valutare alternative e ad assumersi la responsabilità politica delle decisioni. Confondere il ruolo del decisore con quello dell’accademico non è rigore analitico: è una caricatura del potere esecutivo, funzionale a una visione tecnocratica che negli ultimi anni ha mostrato tutti i suoi limiti.

C’è poi un ulteriore paradosso, spesso accuratamente rimosso dal dibattito. Le istituzioni dell’Unione Europea sono letteralmente popolate da figure plurilaureate, con curricula accademici impeccabili. Eppure, proprio sul piano economico, l’Unione ha accumulato negli ultimi decenni una lunga serie di fallimenti: crescita strutturalmente debole, divergenze territoriali aggravate, gestione discutibile delle crisi finanziarie e industriali, politiche procicliche imposte ai Paesi più fragili. L’abbondanza di titoli non si è tradotta automaticamente in buone decisioni.

C’è poi un dato che merita di essere richiamato come elemento oggettivo di valutazione. In oltre tre anni di governo Meloni, l’Italia ha progressivamente recuperato un ruolo centrale sia sul piano economico sia su quello diplomatico nello scenario internazionale. I mercati finanziari — notoriamente poco sensibili alle polemiche televisive e molto attenti ai fondamentali — hanno letto questa traiettoria come un segnale di maggiore stabilità, affidabilità e capacità di governo. Emblematico è il caso dello spread sul rendimento dei titoli decennali governativi: dopo aver raggiunto livelli elevati sotto governi guidati da presidenti del Consiglio ampiamente titolati sul piano accademico, con l’attuale governo si è progressivamente ridotto, arrivando persino a registrare un differenziale favorevole rispetto alla Francia e un marcato avvicinamento a quello tedesco, uno scenario impensabile fino a pochi anni fa.

Sono segnali che i mercati leggono come stabilità, affidabilità e capacità di governo. La finanza globale non si pone le domande di Feltri sui titoli accademici di Giorgia Meloni, ma valuta la sua capacità di governare, di garantire continuità, credibilità e tenuta del sistema Paese.

C’è infine una questione democratica che non può essere elusa. Ridurre la legittimità e la competenza di un leader al possesso di una laurea significa adottare una visione tecnocratica che guarda con sospetto al consenso popolare. Ma la democrazia rappresentativa si fonda su un principio diverso e più esigente: il giudizio politico si dà sui risultati. Il punto, dunque, non è se Giorgia Meloni sia laureata o meno, né se la si approvi politicamente, ma se le sue politiche funzionino.

Spostare il dibattito sui titoli di studio non è analisi economica: è una scorciatoia polemica, spesso adottata quando mancano argomentazioni solide da opporre nel merito.

Antonio Maria Rinaldi

 

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