Europa
Fiscal compact: un trattato uccide la democrazia.
Il Trattato sulla stabilità il coordinamento e la governance nell’unione economica e monetaria (cd. fiscal compact), ratificato dall’Italia con la squadra di Mario Monti al Governo con Legge 23 luglio 2012, n. 114, non fa altro che ribadire l’obbligo al rispetto della ferrea disciplina di bilancio UE prevedendo addirittura la raccomandazione per gli Stati membri di inserire in una legge Costituzionale o equivalente il pareggio in bilancio, cosa che l’Italia ha immediatamente fatto con la modifica dell’art. 81 avvenuta sempre nel 2012.
Il fiscal compact è un vero economicidio.Utile esaminare le norme del Trattato affinché il lettore non si debba fidare di quanto affermo ma possa apprezzarlo in prima persona traendone le inevitabili conclusioni. Fin dalle premesse del Trattato si evince esplicitamente di accogliere il lavoro fraudolento della Commissione europea volto ad inasprire, già dal 1997, attraverso una serie di regolamenti, i recessivi parametri di Maastricht:
“ACCOGLIENDO favorevolmente le proposte legislative per la zona euro avanzate il 23 novembre 2011 dalla Commissione europea nell’ambito dei trattati su cui si fonda l’Unione europea, relative al rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria e a disposizioni comuni per il monitoraggio e la valutazione dei documenti programmatici di bilancio e per la correzione dei disavanzi eccessivi negli Stati membri, e RILEVANDO l’intenzione della Commissione europea di presentare ulteriori proposte legislative per la zona euro riguardanti, in particolare, la comunicazione ex ante dei piani di emissione del debito, programmi di partenariato economico che illustrino nel dettaglio le riforme strutturali degli Stati membri soggetti a procedura per i disavanzi eccessivi e il coordinamento delle grandi riforme di politica economica previste dagli Stati membri”.
Le premesse sono dunque anche un richiamo all’abdicazione delle sovranità nazionali che si debbono inchinare ai diktat UE odierni e futuri. L’art. 3 poi sancisce:
“(omissis…) a) la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in avanzo;
b) la regola di cui alla lettera a) si considera rispettata se il saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione è pari all’obiettivo di medio termine specifico per il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato. Le parti contraenti assicurano la rapida convergenza verso il loro rispettivo obiettivo di medio termine. Il quadro temporale per tale convergenza sarà proposto dalla Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici del paese sul piano della sostenibilità. I progressi verso l’obiettivo di medio termine e il rispetto di tale obiettivo sono valutati globalmente, facendo riferimento al saldo strutturale e analizzando la spesa al netto delle misure discrezionali in materia di entrate, in linea con il patto di stabilità e crescita rivisto;
c) le parti contraenti possono deviare temporaneamente dal loro rispettivo obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo solo in circostanze eccezionali, come definito al paragrafo 3, lettera b);
d) quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato è significativamente inferiore al 60% e i rischi sul piano della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche sono bassi, il limite inferiore per l’obiettivo di medio termine di cui alla lettera b) può arrivare fino a un disavanzo strutturale massimo dell’1,0% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato;
e) qualora si constatino deviazioni significative dall’obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo, è attivato automaticamente un meccanismo di correzione. Tale meccanismo include l’obbligo della parte contraente interessata di attuare misure per correggere le deviazioni in un periodo di tempo definito”.
Viene poi previsto nel fiscal compact che le legislazioni nazionali dei singoli stati membri si adeguino, al più tardi entro un anno, preferibilmente con riforme di rango costituzionale, a tali misure di bilancio e che dunque aboliscano ogni forma di deficit certificando che lo Stato non si occuperà mai più di risparmio, lavoro ed ovviamente di diritti sociali. L’art. 3, paragrafo 2, del Trattato dispone infatti testualmente:
“Le regole enunciate al paragrafo 1 producono effetti nel diritto nazionale delle parti contraenti al più tardi un anno dopo l’entrata in vigore del presente trattato tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio. Le parti contraenti istituiscono a livello nazionale il meccanismo di correzione di cui al paragrafo 1, lettera e), sulla base di principi comuni proposti dalla Commissione europea, riguardanti in particolare la natura, la portata e il quadro temporale dell’azione correttiva da intraprendere, anche in presenza di circostanze eccezionali, e il ruolo e l’indipendenza delle istituzioni responsabili sul piano nazionale per il controllo dell’osservanza delle regole enunciate al paragrafo 1. Tale meccanismo di correzione deve rispettare appieno le prerogative dei parlamenti nazionali”.
Ecco come, sull’onda emotiva del pieno terrore causato dalle turbolenze finanziare del 2011, l’Europa ha saputo immediatamente imporre i suoi vincoli richiedendo che non fossero più la mera emanazione di un ordinamento esterno che avrebbe potuto in ogni momento essere cassato dalla magistratura dei singoli Stati membri, ma pretendendo la trasmutazione del vincolo all’interno degli ordinamenti di ciascuno e ciò riformando la massima legge di ogni Stato.
L’Italia con al Governo Mario Monti, con legge Costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012, ha immediatamente riformato la Costituzione rispettando il Trattato ratificato solo un mese prima, cancellando la sovranità dello Stato Italiano in favore dell’Unione Europea con un vincolo che da esterno è diventato appunto interno.
Il nuovo desolante ed illegittimo art. 81 Cost. recita:
“Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.
Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte”.
La riforma della Costituzione, peraltro effettuata da un Parlamento composto in forza di una legge elettorale che di lì a poco sarebbe stata, come sapete, dichiarata incostituzionale, stravolge l’ordinamento Repubblicano poiché, in sostanza, porta alla stesso ribaltamento di valori previsto con i Trattati. In essi la stabilità dei prezzi, la stabilità finanziaria, prevalgono sulla pace, sulla giustizia e sul benessere dei popoli.
Dunque se la Costituzione ante modifica prevedeva il ruolo giuridico istituzionale del deficit al fine di consentire alla Repubblica la tutela dei diritti inalienabili dell’uomo a partire dal lavoro su cui essa si fonda, quella post riforma assomiglia nella forma e nello stile ai Trattati in cui si scrive tutto ed il contrario di tutto con scopi ovviamente ostili verso la personalità giuridica degli Stati membri.
Il vero compito a casa che chiede l’Europa infatti è semplicemente lo smantellamento degli Stati nazionali e delle relative democrazie che costituiscono un odioso impiccio per i mercati finanziari.
L’incompatibilità della nuova formulazione dell’art. 81 con gli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 37, 41 e 47 e 139 Cost. è palese ed ovviamente i principi fondamentali ed i diritti inalienabili, essendo immutabili, prevalgono su detta riforma con la conseguenza che la legge costituzionale stessa risulta in realtà di certa incostituzionalità. Non si può che auspicare che presto tale tema finisca sui banchi della Corte Costituzionale, nella speranza che la nomina sempre più politicizzata dei futuri membri non consenta di smantellare anche il ruolo di garanzia e di indipendenza che i Padri Fondatori avevano pensato per la Consulta.
Sul punto è intervenuto con grande puntualità anche Luciano Barra Caracciolo, attualmente Presidente della V Sez. del Consiglio di Stato e tra i pochissimi giuristi ad aver capito appieno la situazione:
“Se risultasse, in tale prospettiva, che la riduzione costituzionale e, in via di attuazione periodica e costante, “legislativa” dell’”indebitamento” (che il susseguente comma dell’art.81 vieta direttamente, tranne “autorizzazione” delle Camere, adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di “eventi eccezionali”, connessi a “effetti del ciclo economico”), diminuisse in modo prolungato e “strutturale” l’occupazione (art. 1 e 4 Cost, in sistema con gli artt. 35, 36 e 37 Cost.) ad esempio registrandosi un massiccio incremento della disoccupazione, con forte decremento, comprovato del monte-retribuzioni ad esse precedentemente attribuite, lo stesso “nuovo” art.81 sarebbe in contrasto con norme costituzionali prevalenti e, a rigore, si aprirebbe la via al sindacato “interno” alla Costituzione stessa.
La sindacabilità, anche di norme di revisione, ove violative dei precetti “primigeni” di livello costituzionale, e quand’anche attuative di obblighi pattizi assunti in sede “europea” è da ritenere pacifica.
Ed infatti, se il nostro diritto interno é cedevole di fronte al diritto comunitario, quest’ultimo non può derogare o superare i “principi supremi” della nostra Costituzione.
Una regola questa ribadita dalla Corte costituzionale (sent. 284 del 13 luglio 2007).
(omissis…) Ma, quello della “incidenza manifesta” sul livello di occupazione, è solo uno degli esempi tra i molteplici che si possono addurre: si pensi a una prolungata disciplina finanziaria che, anno per anno, disponga sistematicamente il taglio degli investimenti pubblici, com’è in effetti avvenuto. Ciò fa venir meno un determinante sostegno alla domanda aggregata (il PIL), e, proprio e specialmente in situazione di stagnazione o flessione del PIL, determina la conseguenza di limitare concretamente le indispensabili politiche pubbliche volte a indirizzare l’iniziativa economica verso obiettivi di “sicurezza, libertà e dignità umana” (art.41 Cost., secondo comma), programmando e controllando “effettivamente” l’attività economica, affinché si rivolga (art.41, terzo comma) verso “fini sociali” – tra cui certamente spicca, in virtù degli artt. 1 e 4 Cost.- il perseguimento della “piena occupazione” (e non certo politiche fiscali che amplifichino la disoccupazione).
In altri termini, lo stimolo fiscale all’economia ha una oggettiva funzione anticongiunturale e di concomitante sostegno all’occupazione, e, tale stimolo, per essere conforme a numerose norme costituzionali di tutela del lavoro come fondamento e legittimazione del legame comunitario generale, deve poter essere svolto in misura “effettiva”, cioè adeguata alla dimensione macroeconomica del Paese e non essere ridotto in termini puramente formali e, perciò, tra l’altro, “inattendibili”, secondo l’obiettivo stato della scienza economica, rispetto all’obiettivo (stimolo e sostegno), agevolmente ricavabile in via sistematica dalla Costituzione”.
Caracciolo con il suo consueto stile di altissimo spessore giuridico non fa che ribadire come il divieto perenne all’intervento dello Stato nell’economia, proprio delle logiche neo liberiste, si ponga in radicale antitesi a quei doveri primigeni della Repubblica di dare effettiva tutela al lavoro con la conseguente necessità di poter prendere sovranamente (sotto il controllo politico) tutte quelle decisioni economiche e monetarie dirette al sostegno della domanda aggregata del Paese. Il deficit, come ho più volte specificato in numerosi articoli, è lo strumento tecnico con cui attuarle ed il cui divieto confligge con l’intero impianto della Carta. Il divieto al deficit mette quindi al bando l’intero modello economico Costituzionale.
Ma torniamo all’esame della normativa del Trattato cd. fiscal compact, l’art. 4 fissa il termine entro cui il rapporto complessivo debito/pil deve tornare ad essere pari al 60%, codificando vent’anni di lacrime e di sangue dopo i quali si avrà, nella migliore dell’ipotesi una stagnazione economica visto che, come abbiamo letto nell’art. 3, a quel punto il limite al deficit annuo salirà solo all’1% del PIL a fronte dell’attuale 3%, che è stato comunque ampiamente sufficiente ad affondare l’economia italiana ed europea:
“Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60% di cui all’articolo 1 del protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato ai trattati dell’Unione europea, tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno (omissis…)”.
Infine il Trattato mette a punto i procedimenti sanzionatori, coercitivi e di commissariamento che ogni Stato inadempiente dovrà subire disciplinandoli agli artt. 5, 6, 7 ed 8.
L’art. 5 impone, con la scusa del rispetto dei parametri economici, l’obbligo di attuare le note riforme strutturali di depressione dell’economia attraverso la distruzione sempre più violenta della domanda interna:
“La parte contraente che sia soggetta a procedura per i disavanzi eccessivi ai sensi dei trattati su cui si fonda l’Unione europea predispone un programma di partenariato economico e di bilancio che comprenda una descrizione dettagliata delle riforme strutturali da definire e attuare per una correzione effettiva e duratura del suo disavanzo eccessivo (omissis…)”.
L’art. 6 dispone il controllo ex ante da parte della Commissione anche dei piani di emissione del debito pubblico:
“(omissis…) le parti contraenti comunicano ex ante al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea i rispettivi piani di emissione del debito pubblico”.
L’art. 8 infine ribadisce le sanzioni economiche per chi si discosta dagli obblighi europei secondo la particolare procedura individuata nella norma:
“1. La Commissione europea è invitata a presentare tempestivamente alle parti contraenti una relazione sulle disposizioni adottate da ciascuna di loro in ottemperanza all’articolo 3, paragrafo 2. Se la Commissione europea, dopo aver posto la parte contraente interessata in condizione di presentare osservazioni, conclude nella sua relazione che tale parte contraente non ha rispettato l’articolo 3, paragrafo 2, una o più parti contraenti adiranno la Corte di giustizia dell’Unione europea. Una parte contraente può adire la Corte di giustizia anche qualora ritenga, indipendentemente dalla relazione della Commissione, che un’altra parte contraente non abbia rispettato l’articolo 3, paragrafo 2. In entrambi i casi, la sentenza della Corte di giustizia è vincolante per le parti del procedimento, le quali prendono i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta entro il termine stabilito dalla Corte di giustizia.
2. La parte contraente che, sulla base della propria valutazione o della valutazione della Commissione europea, ritenga che un’altra parte contraente non abbia preso i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia di cui al paragrafo 1 comporta può adire la Corte di giustizia e chiedere l’imposizione di sanzioni finanziarie secondo i criteri stabiliti dalla Commissione europea nel quadro dell’articolo 260 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. La Corte di giustizia, qualora constati che la parte contraente interessata non si è conformata alla sua sentenza, può comminarle il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità adeguata alle circostanze e non superiore allo 0,1% del suo prodotto interno lordo. Le somme imposte a una parte contraente la cui moneta è l’euro sono versate al meccanismo europeo di stabilità. In altri casi, i pagamenti sono versati al bilancio generale dell’Unione europea”.
L’UE dunque non solo è riuscita ad imporre vincoli economici che hanno generato la crisi ma ha previsto un peggioramento degli stessi giustificando tale atto proprio in forza della crisi che i parametri originari dei Trattati hanno causato.
Insomma l’Europa ha spacciato la ragione della malattia per la sua cura fino ad imporre modifiche alle costituzioni nazionali degli Stati membri rendendo sempre più difficile l’azione di quei meccanismi di difesa della democrazia di cui le moderne Costituzioni si sono dotate alla luce delle tragedie del passato.
Se non capiamo il tradimento in atto, tradimento palesemente codificato nelle norme, continueremo a credere al carrozzone degli “euroimbecilli” che perseverano ad osannare, senza averlo minimamente compreso, questo sistema spiccatamente criminale. Esistono infatti solo due categorie di persone che appoggiano il metodo di governo euro: gli ignoranti (magari anche perché circuiti dal bombardamento mediatico) ed i collaborazionisti. Mettiamocelo bene in testa. Se qualche economista “solone” va in giro a dire che uno più uno fa sette non esprime un’opinione ma dice un’emerita stupidaggine.
La verità è questa e la storia ovviamente ci darà ragione. Speriamo solo che il prezzo che pagheremo per questi anni di follia non sia troppo alto, speriamo di evitare un nuovo conflitto mondiale che questa gestione criminale dell’economia rende giorno dopo giorno drammaticamente più vicino.
Grazie al nostro canale Telegram potete rimanere aggiornati sulla pubblicazione di nuovi articoli di Scenari Economici.