Attualità
DISTINGUERE CAPITALISMO E LIBERALISMO: UN COMMENTO AL LAVORO DI MINGARDI (di Paolo Savona)
Nel suo articolo su L’invenzione del neoliberismo Alberto Mingardi ha preceduto di poco l’uscita di un mio lavoro sullo stesso argomento che l’editore Rubbettino manderà in libreria ai primi di aprile sotto il titolo Dalla fine del laissez-faire alla fine della liberal-democrazia e come sottotitolo L’attrazione fatale della giustizia sociale e la molla di una nuova rivoluzione globale.
Pur avendo beneficiato delle idee espresse da Mingardi in altri suoi lavori e delle pubblicazioni della Fondazione Bruno Leoni, non ho potuto tenere conto di questo suo ultimo scritto che mi avrebbe indotto ad affrontare aspetti del problema che ho trascurato. Penso che mi capirà se gli dico che ho dovuto nuotare nel mare delle migliaia di scritti in argomento e talvolta anche lottare contro le onde causate dallo stesso movimento liberale, per tenere la rotta che mi ero prefisso di percorrere: tentare di spiegare perché il liberalismo ha perso presa politica e culturale (almeno sui media).
Condivido la tesi centrale di Mingardi che il capitalismo ha ripreso la guida politica degli Stati e condiziona il funzionamento delle democrazie sconvolgendo gli equilibri che l’Occidente aveva saputo raggiugere nel dopoguerra assegnando «al mercato il compito di produrre ricchezza, alla politica la sua distribuzione». Sia il precedente dibattito sul laissez-faire, sia quello successivo hanno patito dell’identificazione voluta dal capitalismo con il liberalismo, mentre tra i due vi è una profonda differenza che i liberali non hanno saputo o voluto confutare, nuocendo gravemente alla loro stessa affermazione politica.
Ciò che sovente non viene ricordato è che al vertice della scala dei valori sociali del capitalismo vi è la libera accumulazione di capitale produttivo (oggi soprattutto finanziario), mentre al vertice di quella del liberalismo vi è l’affermarsi di un sistema di libertà (quello che chiamo il quadrilatero di Locke: diritto alla vita, alla libera espressione e al libero movimento delle persone, alla proprietà e all’eguaglianza).
Nel 1926 Keynes scrisse il saggio The end of laissez-faire, respingendo un’economia e una società dominata dalla sola libera iniziativa economica, e nel 1941 Roosevelt, dopo aver fronteggiato la Grande crisi capitalistica del 1929-33, lanciò il messaggio delle quattro libertà «per tutto il mondo», le quali trovarono parziale attuazione nel 1942 e nel 1944 nelle iniziative di Beveridge e Keynes per creare il welfare e perseguire la piena occupazione. Non ci possiamo però fermare alla semplice considerazione della spinta riformistica interna al liberalismo per apprezzare i contributi che esso ha dato all’avanzamento della civiltà umana, ma riconoscere che il capitalismo ha accettato “l’ingerenza distributiva” della democrazia per la concorrenza mossa dal comunismo sovietico, dopo gli errori commessi nell’affidarsi a regimi autoritari per frenare l’indignazione popolare nascente dalle condizioni in cui erano tenuti i lavoratori.
Nel 1989 il collasso del comunismo sovietico ha permesso al capitalismo di recuperare i suoi vecchi vizi, mascherandosi dietro le forme neo-liberiste. Nell’esperienza della Signora Thatcher e del Signor Reagan questo recupero non ha ferito la democrazia, mentre in quella che stiamo vivendo con il mercato globale, l’esplosione della finanza e lo sfruttamento dei lavoratori nelle aree arretrate sta causando questo risultato.
Ma vi è un altro passaggio storico che va tenuto presente: il socialismo democratico si è impossessato delle proposte liberali “offrendo di più”, ma rovesciando l’ordine di importanza tra le libertà individuali e quelle collettive o sociali. Il liberalismo si è messo a rincorrere questo ideale, subendo quella che nel mio lavoro definisco un’“attrazione fatale”. Il peso dello Stato sul reddito prodotto è cresciuto enormemente senza che la domanda sociale si sentisse non dico appagata, ma neanche un pò soddisfatta, facendo perdere il controllo politico dell’elettorato sia alla liberal-democrazia, sia social-democrazia, con un riflusso verso il capitalismo più moderato a livello nazionale e quello più sconsiderato a livello globale.
E’ mancata una pedagogia sociale, quella che Roosevelt e Keynes erano stati capaci di praticare. Se dopo mezzo secolo di redistribuzione dei redditi voluto dalla politica che ha reso invasivo lo Stato, ci ritroviamo coinvolti nella più sterile disputa alla Piketty sulla distribuzione del reddito che peggiora, non si capisce come mai i cittadini lavoratori ancora spingono per continuare in politiche redistributive assistenziali, invece di pretendere opportunità di crescita per tutti, ricercando un equilibrio tra il funzionamento della democrazia di massa e del mercato globale, correggendo gli eccessi dell’una e dell’altro, e ridando allo Stato quella sovranità che oggi entrambi contribuiscono a sottrarre?
La confluenza dei mercati nazionali nel mercato globale ha riportato al potere un nuovo legislatore, dematerializzato e perciò non individuabile come i sovrani del passato, che spoglia la democrazia dalla sua funzione di legislatore collettivo e, quindi, delle sue prerogative redistributive; i Parlamenti devono solo ubbidire, altrimenti la speculazione mette in crisi i rispettivi paesi.
Chiedetelo al Parlamento greco. Lo Stato nazionale di tipo westfaliano (territorio, popolazione e sistema giuridico nazionale) con Internet, immigrazioni e nascita di sistemi giuridici sovranazionali perde le sue caratteristiche di base e la sua sovranità patisce le stesse limitazioni dei Parlamenti; non può più essere garante delle libertà individuali, come vorrebbe il liberalismo, né del benessere collettive, come vorrebbe il socialismo. Se non si riesce a ripristinare un equilibrio nel funzionamento di queste istituzioni la rivoluzione liberale, come quella socialista, si può considerare usaurita.
Il cittadino titolare di diritti ridiventa suddito di un sovrano al quale non può essere più tagliata la testa. La democrazia e lo Stato devono riprendersi la sovranità espropriata da un mercato che non ha le caratteristiche volute dal liberalismo, essendo oligopolistico e iperfinanziarizzato, ossia non contribuisce alla formazione di una distribuzione del reddito più equa su basi commutative, come accadrebbe con una seria libera competizione.
Il liberalismo deve rivendicare il fatto che tutti i progressi che l’umanità ha registrato negli ultimi secoli sono scaturiti dalla sua “rivoluzione”, delle cui conquiste hanno beneficiato anche le idee sociali più avanzate, dal socialismo allo stesso comunismo fuori dai confini sovietici; lo stesso islamismo massimalista sta beneficiando delle nostre libertà, come ribadito dalla sentenza della Corte di Strasburgo che pone i diritti delle libertà democratiche al di sopra di quelli della sicurezza, fondamento degli Stati più di quanto non siano le altre funzioni a esso attribuite.
Paolo Savona, Il Foglio 3.3.16
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