Analisi e studi
Decreto dignità. Si poteva fare di più? (di Paolo BECCHI e Giuseppe PALMA)
Lavoro e fisco, questi i temi affrontati dal decreto dignità. Certo, un primo passo importante verso il lavoro meno precario e un fisco meno invasivo, ma si poteva fare di più?
Per quanto riguarda il tema “lavoro” è rimasto invariato l’aspetto più distruttivo del Jobs Act, vale a dire che nulla cambia in merito ai casi in cui il lavoratore illegittimamente licenziato può ottenere dal giudice il reintegro nel posto di lavoro. Il Jobs Act di Renzi limita infatti tali casi ai licenziamenti discriminatori e nulli, escludendo quelli economici. Tale impostazione è rimasta invariata nel decreto dignità, che però migliora la cosiddetta “tutela obbligatoria”, cioè quella economica, la quale viene ampliata all’interno di una forbice risarcitoria che va da un minimo di 6 ad un massimo di 36 mensilità, ben più alta di quella prevista dal Jobs Act (un risarcimento tra un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità).
Positiva la nuova disciplina che riduce i contratti a tempo determinato, che non potranno superare la durata dei 24 mesi (il singolo contratto non potrà superare i 12 mesi). Per disincentivare i contratti a termine vengono infatti reintrodotte le clausole necessarie al rinnovo, cioè l’obbligo per il datore di lavoro di motivare le ragioni del rinnovo di un contratto a termine. In tal caso ogni contratto a tempo determinato successivo al primo, entro il termine massimo di 24 mesi, costerà alle imprese lo 0,5% in più in termini contributivi. Una inversione di tendenza di cui prendere atto. Bene anche l’inasprimento delle sanzioni per le imprese che, beneficiando delle agevolazioni fiscali, decidano di delocalizzare.
Meno soddisfacente, a nostro avviso, il capitolo riguardante il “fisco”. Nei giorni scorsi Di Maio aveva annunciato l’abolizione di spesometro, redditometro e studi di settore. Nulla di tutto questo viene in linea di principio abrogato. Tutti e tre gli strumenti restano ma diventano meno invasivi. Gli obblighi fiscali connessi allo spesometro vengono rinviati a febbraio del prossimo anno, per poi vedere se abrogarli interamente o meno. Per quanto riguarda il redditometro, invece, verranno utilizzati indici meno invasivi rispetto a quelli introdotti negli ultimi anni, quindi sarebbe più corretto parlare di una “rimodulazione” più favorevole al contribuente. A tal proposito, in merito al sistema di accertamento sintetico del reddito, il decreto dignità abroga espressamente il decreto del Mef del 16 settembre 2015, cioè quello emanato dal Governo Renzi circa gli strumenti per l’accertamento dei redditi dichiarati dal 2011 in avanti. In pratica si torna ai metodi di accertamento dell’era pre-Monti. Infine, per quel che riguarda gli studi di settore, il decreto dignità dice quasi niente. Del resto, già il Governo Gentiloni ne aveva previsto il superamento a partire dal 2019, quindi dal punto di vista legislativo non si poteva abrogare qualcosa che è già stato abrogato. Occorrerà tuttavia vedere se a gennaio verranno o meno aboliti i nuovi strumenti pensati da Padoan in sostituzione degli studi di settore. Al momento il decreto dignità, allo scopo di determinare la ricostruzione induttiva del reddito di cittadini e imprese, introduce soltanto una maggiore condivisione con le organizzazioni di categoria e con l’Istat, tenendo presente la capacità di spesa e la propensione al risparmio dei contribuenti. Insomma, un po’ di democrazia in più, ma poco di quello che Di Maio aveva promesso. Vedremo cosa accadrà nel 2019. Ora il decreto dignità passerà all’esame del Parlamento per l’approvazione della legge di conversione, con la speranza che la Lega faccia valere la sua voce quantomeno per giungere all’abrogazione – senza se e senza ma – di tutti gli strumenti giacobini di accertamento fiscale.
Insomma si poteva fare di più, ma non dimentichiamo che siamo stati ad un passo dall’avere il governo Cottarelli, che un decreto dignità non l’avrebbe mai fatto. Il punto, però, è un altro. Renzi col Jobs Act presentò, in tema di riforma del mercato del lavoro, un pacchetto di misure completo, misure distruttive che penalizzavano il lavoratore e i diritti ad esso connessi. Ora occorreva, da parte del Governo del cambiamento, un pacchetto altrettanto completo e in simmetrica contrapposizione al Jobs Act. Il decreto dignità è certamente un primo passo, nessuno può negarlo, ma per il futuro occorre un progetto organico e completo di riforma del mercato del lavoro che intraprenda la rotta opposta a quella tracciata dal Governo Monti prima e da quello Renzi dopo. Il decreto dignità, per quello che è oggi, non mira a creare nuovi posti di lavoro, bensì ad allentare la stretta sui diritti dei lavoratori posta in atto dagli ultimi quattro governi. La lotta al precariato è importantissima, ma nel prosieguo di Legislatura si dovrà intervenire in maniera più massiccia sull’intera materia per debellare l’intero impianto strutturale introdotto da Fornero e Renzi.
Possiamo dunque concludere che gli aspetti positivi del decreto al momento ci rincuorano. Dopo sei anni di attacchi senza quartiere a lavoratori e contribuenti si intravede finalmente un’inversione di tendenza. Qualcosa, sia pure lentamente, sta cambiando.
di Paolo BECCHI e Giuseppe PALMA
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