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Analisi e studiEconomia

Contrordine dalla Fed: I dazi non creano inflazione, ma disoccupazione. Uno studio che ribalta le certezze.

Dazi e Inflazione, la Fed ribalta tutto: “Non aumentano i prezzi, ma la disoccupazione”. Lo studio su 150 anni che smentisce la teoria economica comune.

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Quando si parla di dazi doganali, il dibattito pubblico, specialmente in Italia, si polarizza su una convinzione quasi monolitica: aumentarli significa aumentare i prezzi per i consumatori. Un dazio è una tassa sull’importazione; se un bene importato costa di più, il prezzo finale al dettaglio salirà. Logico, lineare, quasi banale. Questa idea, nota come “cost-push” (spinta dai costi), è la base della teoria economica standard: i dazi agiscono come uno shock negativo sull’offerta, portando a una sgradevole stagflazione (meno crescita, più inflazione).

Ora, però, aprite bene le orecchie. La Federal Reserve Bank di San Francisco ha pubblicato un working paper (WP 2025-26) che, con la pacata autorevolezza dei dati storici, prende questa certezza e la ribalta completamente e, tra l’altro, considerando un orizzonte storico di ben 150 anni.

Lo studio, intitolato “What Is a Tariff Shock? Insights from 150 years of Tariff Policy“, firmato dagli economisti Régis Barnichon e Aayush Singh, giunge a una conclusione che suona quasi eretica: un aumento dei dazi (abbassa l’inflazione) e (aumenta la disoccupazione).

Esatto. Avete letto bene. I dazi, secondo questa analisi, non agirebbero come uno shock da costi (offerta), ma come uno shock negativo sulla domanda aggregata. In pratica, innescherebbero una recessione, e questo porterebbe, ome risultato , deflazione e disoccupazione.

🏛️ Il problema della Causalità: Come distinguere la cura dalla malattia

Prima di arrivare al cuore del discorso, bisogna fare una premessa tecnica, fondamentale per capire la serietà di questo studio. Il problema principale, quando si analizzano i dazi, è l’identificazione causale.

In altre parole: è il dazio che causa la recessione, o è la recessione che causa il dazio?.

Spesso, i governi impongono tariffe in risposta a una crisi economica, magari per proteggere l’industria nazionale quando la disoccupazione sale. Se si guardassero i dati superficialmente, si vedrebbe “alta disoccupazione” seguita da “alti dazi”, concludendo erroneamente che la prima causa i secondi, o che i dazi non hanno risolto nulla.

È qui che gli autori hanno avuto il colpo di genio: usare 150 anni di storia americana (dal 1870) , un periodo in cui la politica tariffaria non era una risposta scientifica al ciclo economico, ma una clava ideologica quasi-casuale.

Dazi medi comparat: USA, UK e Francia

🐘 Il “laboratorio naturale” della politica USA

Il bello della storia americana fino al 1935 è che i due partiti avevano idee diametralmente opposte sui dazi, e le applicavano indipendentemente dalla congiuntura.

  • Repubblicani (Nord): Erano protezionisti. Volevano dazi alti per proteggere le industrie nascenti del Nord dalla concorrenza europea.
  • Democratici (Sud): Erano liberisti. Il Sud aveva poche industrie, importava molti beni e viveva di export agricolo. Volevano dazi bassi per pagare meno i beni importati e non subire ritorsioni sulle loro esportazioni.

Lo studio evidenzia che le recessioni non favorivano sistematicamente un partito o l’altro, ma aumentavano semplicemente la probabilità di un cambio di potere da un partito all’altro. 

Questo caos politico ha creato un “laboratorio naturale” perfetto. Gli autori dimostrano che, guardando ai dati, non c’è alcuna relazione sistematica tra lo stato dell’economia (es. disoccupazione) e la direzione del cambio dei dazi (aumento o taglio).

L’esempio più lampante è la reazione alla disoccupazione elevata:

  1. Crisi del 1893-94: Disoccupazione alta (circa 10%). I Democratici (al potere) rispondono abbassando i dazi (Wilson-Gorman Tariff Act).
  2. Crisi del 1896-97: Disoccupazione ancora alta (circa 10%). I Repubblicani (tornati al potere) rispondono alzando i dazi (Dingley Tariff Act).

Stessa malattia (alta disoccupazione), cure opposte. Lo stesso accadde durante la Grande Depressione: prima l’aumento protezionista disastroso dello Smoot-Hawley Act (1930) e poi, in condizioni economiche simili, l’inversione totale con il Reciprocal Tariff Act (1934) di Roosevelt, che iniziò a tagliare le tariffe.

Grazie a questa “quasi-casualità” storica, gli autori sono riusciti a isolare l’effetto puro dei dazi sull’economia.

📉 I Risultati: L’impatto numerico dei dazi

Veniamo ai numeri. Lo studio utilizza modelli VAR (Vector Autoregressive) sia su dati OLS (sfruttando la casualità storica) sia con un approccio IV (usando solo i dazi “narrativi”, cioè quelli palesemente motivati da ideologia e non dal ciclo economico).

I risultati, come detto, sono sorprendenti e coerenti in entrambi i metodi.

Un aumento dei dazi provoca una contrazione dell’attività economica (aumento della disoccupazione) e una riduzione dell’inflazione (CPI).

Ordinate:; a sinistra cambio dell’inflazione e a destra della disoccuppazione nell’anno X (sopra) e X+1 al cambio dei dazi (ascisse)

Ora facciamoci una domanda pratica: cosa succede se i dazi aumentano di 4 punti percentuali (ppt)?

Gli autori forniscono una stima chiara, basata sul campione storico pre-Seconda Guerra Mondiale (1869-1939), che è il periodo con le variazioni più ampie e significative:

“Nel campione pre-WWII, un aumento permanente del tasso tariffario di circa 4 punti percentuali abbassa l’inflazione di 2 punti percentuali all’impatto e aumenta la disoccupazione di circa 1 punto percentuale“.

L’effetto è statisticamente significativo.

Ma la scoperta forse più interessante è che questo risultato non vale solo per il passato. Gli autori hanno testato il modello anche sul periodo moderno (post-WWII, 1946-2020). Sebbene nel dopoguerra le variazioni dei dazi siano state molto più contenute (rendendo le stime statisticamente più “incerte”), la direzione è la stessa: dazi più alti portano a inflazione più bassa e disoccupazione più alta.

Non solo. Per escludere che fosse una stranezza solo americana, lo studio ha replicato l’analisi sui dati storici di Francia e Regno Unito, ottenendo risultati analoghi: un aumento dei dazi comprime l’economia e l’inflazione.

🤔 Perché accade? La spiegazione (Keynesiana) della Fed

Come è possibile che una tassa su un bene importato (dazio) porti a un calo generale dei prezzi (inflazione)?

La teoria standard, come detto, prevede che i dazi siano “cost-push” (inflazionistici). Ma i dati di 150 anni dicono il contrario. Gli autori dello studio concludono che i dazi agiscono principalmente come uno shock negativo sulla domanda aggregata.

Questo meccanismo, molto più vicino a una visione keynesiana, suggerisce che l’aumento dei dazi non si limita a far costare di più il singolo prodotto importato, ma “avvelena” l’intero clima economico attraverso due canali principali .

  1. Il Canale dell’Incertezza

Un aumento dei dazi, specialmente se improvviso o parte di una “guerra commerciale”, crea un enorme aumento dell’incertezza.

  • Le imprese non sanno se e dove investire. Le catene di approvvigionamento diventano inaffidabili. Di fronte all’incertezza, gli investimenti vengono posticipati o cancellati.
  • I consumatori percepiscono un clima economico negativo, temono per il proprio posto di lavoro e riducono la fiducia. Di conseguenza, tagliano le spese (specialmente quelle per beni durevoli) e aumentano i risparmi precauzionali.

Questo blocco simultaneo di investimenti e consumi deprime l’attività economica e mette una forte pressione al ribasso sui prezzi (disinflazione).

  1. Il Canale della Ricchezza (Effetto Borsa)

Il secondo canale è l’effetto ricchezza. Le guerre commerciali e l’incertezza non piacciono ai mercati finanziari.

Lo studio della Fed ha verificato anche questo: in risposta a un aumento dei dazi, i prezzi delle azioni diminuiscono e la volatilità del mercato azionario aumenta.

Quando la Borsa scende, i risparmiatori (specialmente nei paesi come gli USA) si sentono più poveri. Questo “effetto ricchezza negativo” li porta a spendere di meno, deprimendo ulteriormente la domanda aggregata e, di conseguenza, l’inflazione.

💡 Conclusione: Una lezione per il presente

Questo studio della Federal Reserve di San Francisco è una vera bomba per il dibattito economico. Ci dice che, per 150 anni, l’effetto dominante dei dazi non è stato l’aumento dei prezzi al consumo (inflazione), ma la contrazione della domanda (recessione).

Il dazio, in quest’ottica, non è uno strumento “pro-crescita” che protegge l’industria, ma un potente freno a mano tirato sull’economia. Comprime la domanda interna, fa salire la disoccupazione e, come conseguenza di questa debolezza economica, fa scendere l’inflazione.

Questo ribalta completamente le implicazioni per la politica monetaria. Se i dazi sono inflazionistici (cost-push), la banca centrale dovrebbe rispondere alzando i tassi per combattere l’inflazione (accettando la recessione). Ma se i dazi sono deflazionistici (demand-shock), come suggerisce questo studio, la banca centrale dovrebbe fare l’opposto: tagliare i tassi per sostenere l’economia contro la recessione imminente.

In questo momento che succede? Stiamo assistendo ad un rallentamento dell’occupazione, ma l’inflazione non cresce. Anche se in modo limitato, questa volta, si stanno realizzando le previsioni dello studio della Federal Reserve. Forse il fatto che la bolla della AI mantenga ancora alti i corsi di borsa fa si che la previsione non si sia completamente ancora avverata.

Una lezione storica fondamentale, proveniente proprio dalla Fed, che forse dovrebbe essere letta con attenzione da chi, oggi, invoca il protezionismo come soluzione semplice a problemi complessi.

Domande e risposte

Perché i dazi dovrebbero abbassare l’inflazione? Non dovrebbero aumentare i prezzi?

Questa è la scoperta controintuitiva dello studio. Sebbene un dazio aumenti il prezzo del singolo bene importato, il suo effetto macroeconomico dominante è negativo. Secondo la Fed, i dazi generano così tanta incertezza e una tale caduta dei valori azionari (effetto ricchezza negativo) da spingere imprese e consumatori a smettere di investire e spendere . Questa contrazione della domanda aggregata (cioè una recessione) è così forte da mettere una pressione al ribasso su tutti i prezzi, più che compensando l’aumento del costo del singolo bene importato.

Questo studio della Fed è affidabile? Come hanno fatto a esserne sicuri?

L’affidabilità dello studio deriva dal modo intelligente in cui ha risolto il problema della “causalità”. Invece di guardare solo ai dati recenti, ha analizzato 150 anni di storia USA. Ha scoperto che, fino al 1935, i cambi di dazi erano “quasi-casuali” perché legati all’ideologia (Repubblicani pro-dazi, Democratici contro) e non a risposte ragionate all’economia. Ad esempio, di fronte alla stessa disoccupazione alta, i due partiti applicavano ricette opposte . Questo “laboratorio naturale” ha permesso di isolare l’effetto puro dei dazi.

I risultati dello studio valgono anche per l’economia di oggi?

Sì, lo studio suggerisce di sì. Sebbene la struttura dell’economia sia cambiata, gli autori hanno testato il modello anche sul periodo post-Seconda Guerra Mondiale (1946-2020). Anche in questo campione moderno, i risultati, seppur con magnitudo diverse, confermano la stessa dinamica: un aumento dei dazi tende ad aumentare la disoccupazione e a ridurre l’inflazione. Inoltre, i meccanismi individuati (incertezza economica e calo dei mercati finanziari) sono oggi forse ancora più potenti e veloci di quanto non lo fossero 100 anni fa.

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