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C’è sempre un’alternativa al “There Is No Alternative”

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“Il mondo è ricco di risorse per assicurare a tutti i beni primari. Eppure molti vivono in una scandalosa indigenza e le risorse, usate senza criterio, si vanno deteriorando”

Sono le parole del Papa di qualche giorno fa e fotografano una realtà in continuo peggioramento, sempre di più aumentano i poveri e le persone in difficoltà in un mondo in cui le risorse sono abbondanti e potrebbero soddisfare tutti.

Ma non solo il Papa, sono in tanti i commentatori a rendersi conto di queste disparità crescenti. Oxfam da anni traccia la situazione e rappresenta l’evidenza che pochi ricchi nel mondo detengono la maggior parte delle ricchezze. L’Africa viene oggi persino costretta a cedere migliaia di ettari di terra a ricchi emiri che li usano per la caccia, a ricchi cinesi che costruiscono città fantasma o alle tante ricche società d’affari americane ed europee che li usano per i loro investimenti mettendo a rischio le coltivazioni e lo sviluppo locale.

Sarebbe il caso di chiedersi perché tutto questo succede, passare dal constatare i fatti al passo successivo, all’azione. L’Africa, del resto, non è la sola a subire questo neocolonialismo moderno, la povertà cresce anche da noi, nella ricca e opulenta Europa. La Grecia è stata ridotta alla fame e tutte le sue attività produttive sono state vendute al miglior offerente, in Italia le persone in difficoltà superano oramai i 5 milioni di persone.

La risposta affonda sicuramente le sue radici nell’ultimo pezzo di storia contemporanea. Dal secondo dopoguerra e fino agli anni ’70 c’erano stati segnali di miglioramento generali, tassi di crescita oggi inarrivabili e una distribuzione del reddito sicuramente più equilibrata. Le società crescevano dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista sociale e politico, si viveva un’epoca di capitalismo dal volto umano.

Si arriva poi agli anni ’80, ai tempi in cui Margaret Thatcher pronunciò la famosa frase “There Is No Alternative” ovvero non c’era alternativa alle nuove politiche di austerità, di ritiro dello Stato dall’intervento pubblico e dall’affidare le sorti delle società agli interessi dei privati, dei mercati e della finanza.

Fu appoggiata in questo da Reagan, Mitterrand e Kohl, i potenti di allora, ed insieme cambiarono il futuro e la prospettiva dell’umanità. La cooperazione sociale fu sostituita dalla concorrenza, l’individualismo fu la regola, ognuno per se e solo il più forte può farcela.

Istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale, nati per aiutare i Paesi e le popolazioni, diventarono il braccio armato del nuovo colonialismo e di una nuova idea imperialista. La cornice di questo quadro era una dottrina economica che aveva le basi di una “religione del tutto” e aveva visto il suo maggior esponente, Milton Friedman, vincere il premio Nobel per l’economia nel 1976: il neo liberismo.

La forza di questa teoria economica è stata proprio la diffusione del concetto che ad essa non ci si poteva opporre, che non esiste alternativa. Gli Stati possono operare in un recinto chiuso che non prevede cambiamenti, sono concessi accorgimenti e limature, ma devono procedere su una strada segnata.

Agire e pensare come se non fosse mai esistito Keynes o trecento anni di storia economica, “There Is No Alternative (TINA)”. E in tale contesto il fondamento di questa dottrina economica è quanto di più semplice poteva essere posto nelle mani di politici, intellettuali ed accademici che avevano il compito di diffonderne il verbo, tutto in sette parole come i giorni della settimana: togliere ai poveri per dare ai ricchi.

Esportazioni, debito pubblico, inflazione, borse, spread, mercati. Tutto, all’interno delle politiche economiche della teoria neo liberista, funziona per portare ricchezza dai poveri ai ricchi.

La crescita attraverso surplus della bilancia commerciale, cioè attraverso le esportazioni, è un metodo predatorio perché nel confronto tra gli Stati vince sempre il più forte e quelli che guadagnano dal “libero” commercio sono appunto gli Stati più forti, concorrenziali, con aziende che hanno già superato le fasi iniziali e sperimentali della produzione. Non a caso il “libero mercato” fu imposto alla storia e ai paesi più deboli dall’Inghilterra quando ebbe la necessità di esportare i prodotti post rivoluzione industriale. Un colpo di genio: una Nazione resa forte dal protezionismo inventò il concetto di libero mercato per essere libera di esportare il suo surplus commerciale.

Il debito pubblico, attraverso gli interessi, ingrassa i banchieri, le società d’affari e la finanza mentre il controllo dell’inflazione fa sì che i loro crediti non si deteriorino. Le borse sono diventate delle vere sale da gioco d’azzardo dove i ricchi vincono sempre e se le cose si mettono male intervengono gli Stati a rimettere insieme i cocci aumentando le tasse ai poveri.

Lo spread è solo l’ultima delle armi delle politiche neo liberiste, serve per diffondere il terrore e per far digerire alle popolazioni le politiche di austerity, cioè, ancora, spostare ricchezza dal basso verso l’alto attraverso l’aumento delle tasse e la diminuzione dei servizi.

In tutto questo disastro ci siamo lasciati convincere che il mercato, se lasciato libero di agire nella sua saggezza, possa risollevare e migliorare le condizioni di vita delle persone e quindi ci opponiamo se un Governo interviene per alleviare le pene agli ultimi mentre approviamo distrattamente quando si stanziano soldi per salvare le banche.

Il mondo dietro l’angolo è sempre più un mondo contrapposizione tra una decina di ricchi e una massa di poveri ma noi ci fermiamo alle analisi e lottiamo per la forfora nei capelli, lasciamo che il “There Is No Alternative” del neo liberismo prosperi ma siamo attenti alle virgole nei decreti dei governi. Magari partecipiamo alla raccolta fondi per le catastrofi delle alluvioni mentre Draghi dice in conferenza stampa che il denaro della BCE non può finire.

“Se sulla terra c’è la fame non è perché manca il cibo! Anzi, per le esigenze del mercato si arriva a volte a distruggerlo, si butta…”, continua il Papa.

“Houston abbiamo un problema” e fin qui ci siamo arrivati tutti. Il punto non è più rilevare il problema come giustamente fa il Papa ma anche il barbiere, il barista e l’intellettuale di sinistra, il punto è cercare di risolverlo. E questo può avvenire solo con una reale presa di coscienza delle masse ed un’idea precisa di come schierarsi. La scelta non è tra le righe del decreto sicurezza o tra pane e brioche ma tra elysium e civiltà, tra progresso e barbarie, tra accettare l’economia o ridisegnare il ruolo della Politica.

Claudio Pisapia


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