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Articolo 2 della Costituzione USA : perché Donald Trump non può scegliere Marco Rubio come vicepresidente (o qualsiasi politico della Florida)
Una norma arcaica impone che presidente e vice non risiedano nello stesso stato, pena perdere dei delegati essenziali
Ad un recente incontro elettorale in Florida, Donald Trump ha accennato alla possibilità di noominare il senatore Marco Rubio come vicepresidente. Una dichiarazione che poi non ha ufficialmente fatto, lasciando il tema nel vago, ma che potrebbe aprire una crisi istituzionale di cui i Democratici approfitterebbero immediatamente e che trae le sue origini dalle radici della Costituzione americana e dal Dodicesimo emendamento che ha cercato di correggerla.
Prima di tutto ricordiamo che Donald Trump, nato a New York, ha trasferito la residenzza a Mar-a-Lago, in Florida, nel 2019, lo stesso stato di Marco Rubio e questo è un grande problema.
Una costituzione imperfetta
A causare tutta questa confusione sono l’articolo 2 della costituzione e il dodicesimo emendamento, che definiscono il collegio elettorale presidenziale, nella sua definizione originale del 1787, con allegato pasticcio fatto dai Padri Fondatori.
Ricordiamo che gli USA votano il presidente NON direttamente, ma con un collegio elettorale formato dai delegati dei singoli stati, in base alla popolazione, vincolati a rispettare il mandato elettorale. Per questo è importante conquistare gli Stati e vincere il California, lo stato più grande , con il 30% di distacco è inutile se l’altro candidato vince in un maggior numero di stati con una percentuale anche più bassa.
Il meccanismo elettorale originale prevedeva quattro aspetti cruciali:
- Il primo era che gli elettori avrebbero votato per due persone, almeno una delle quali doveva provenire da uno Stato diverso da quello di origine dell’elettore,.
- Il secondo era che gli elettori non facevano distinzioni tra le due persone come potenziali presidenti o vicepresidenti. Gli elettori dovevano semplicemente votare per le due persone che consideravano più qualificate per diventare presidente. La persona che avrebbe ottenuto il maggior numero di voti (se la maggioranza) sarebbe diventata presidente. Il secondo classificato (presumibilmente la seconda persona più qualificata) sarebbe diventato vicepresidente. Nel 1787 NON esisteva il “Ticket”, l’accoppiata presidente-vicepresidente;
- Il terzo presupposto era che gli elettori – almeno dopo l’elezione del tutto prevedibile (e unanime) di George Washington come primo Presidente – spesso non avrebbero raggiunto la maggioranza di approvazione di un candidato specifico; in tal caso, secondo la Costituzione originale, la decisione sarebbe stata presa dalla Camera dei Rappresentanti, in cui però ogni Stato che avrebbe avuto un voto. La Costituzione prevedeva anche che la Camera avrebbe scelto in caso di parità di voti tra due candidati che avessero ricevuto la maggioranza dei voti.
- Infine, poiché la Costituzione, fino all’emendamento del 1933, prevedeva che i nuovi rappresentanti eletti si riunissero per la prima volta solo un anno intero dopo l’elezione, la scelta sarebbe stata fatta da un’Assemblea che probabilmente avrebbe incluso un certo numero di rappresentanti NON rieletti, cioè che non rappresentavano più nulla.
L’elezione del 1800 fu una delle più importanti della storia americana e, probabilmente, anche della storia mondiale, perché rappresentò la prima volta che un leader in carica fu sconfitto in un’elezione. Il leader in carica era John Adams, che era stato Vicepresidente di Washington per due mandati e poi era stato eletto a pieno titolo nel 1796. Il suo Vicepresidente era Thomas Jefferson, che lo batté alle elezioni.
I Padri Fondatori non volevano che nascessero partiti nelle elezioni presidenziali: in modo utopistico volevano che vincesse il migliore. Vivevano nel mondo di George Washington, che però non era quello reale. Queste speranze furono rapidamente frustrate. Già nel 1796, Adams era associato al Partito Federalista, mentre Jefferson era sostenuto dal Partito Democratico-Repubblicano. Si affrontarono di nuovo nel 1800, e sia Adams che Jefferson avevano dei ‘compagni di corsa’, Charles Cotesworth Pinckney della Carolina del Sud nel caso di Adams (e del Partito Federalista) e Aaron Burr di New York, per Jefferson.
Gli elettori del Partito Federalista capirono che era importante non esprimere entrambi i loro voti per Adams e Pinckney, in quanto ciò avrebbe creato un pareggio e, se entrambi avessero ottenuto la maggioranza dei voti, avrebbe lasciato che l’elezione la decidesse il Parlamento e votarono solo uno dei due, votando terze persone per i secondi voti.
Gli elettori democratico-repubblicani non furono così sagaci: espressero entrambi i loro voti per i campioni del loro partito, creando un pareggio di maggioranza che ha costretto la Camera a scegliere tra Jefferson e Burr che provenivano dallo stesso partito. Un gran pasticcio.
Quando la Camera dei Rappresentanti decise le elezioni
Il voto di parità mise in luce i profondi problemi del sistema del 1787. La regola “uno Stato/un voto” aveva l’effetto pratico di dare all’unico rappresentante del Delaware, Bayard, un ardente Federalista, lo stesso potere di voto della Virginia, allora lo Stato più grande (e patria, ovviamente, di Jefferson). E se uno Stato avesse un numero pari di rappresentanti che si dividono la sera in base alla loro scelta? In questo caso, il voto dello Stato non veniva espresso affatto. Insomma, un pasticcio
Dato che nel 1801 c’erano 16 Stati nell’Unione, nove delegazioni dovevano accordarsi sulla loro scelta. Solo al 36° scrutinio Bayard accettò di votare per Jefferson e di rompere l’impasse (a quel punto almeno due governatori jeffersoniani, della Pennsylvania e della Virginia, minacciavano di chiamare le milizie dei loro Stati e di ordinare loro di marciare sulla nuova capitale nazionale a Washington, D.C., facendo saltare il banco).
Jefferson fu inaugurato pacificamente il 4 marzo e fu creato un precedente importantissimo per il trasferimento pacifico del potere. Tuttavia, il sistema originale dei collegi elettorali si rivelò problematico e ci fu un ampio consenso sulla necessità di fare qualcosa. Ma cosa?
Il dodicesimo emendamento
Una possibilità, ovviamente, era quella di adottare il suggerimento di James Wilson della Pennsylvania alla Convenzione di Filadelfia, secondo cui i presidenti sarebbero stati eletti da un voto popolare nazionale. Chi prendeva più voti vinceva. Questa proposta fu respinta nel 1787 e non divenne una possibilità seria all’inizio del XIX secolo, per una questione di equilibrio di potere degli Stati. Tuttavia, era diventato chiaro che i partiti politici erano diventati una caratteristica della politica americana e che il sistema dei collegi elettorali doveva essere modificato per rifletterlo. Come è stato realizzato?
La risposta è abbastanza semplice: in futuro gli elettori avrebbero continuato a esprimere due voti (e uno di questi, come in precedenza, avrebbe dovuto essere per un non cittadino dello Stato di provenienza dell’elettore), ma, cosa fondamentale, uno dei due voti sarebbe stato esplicitamente destinato alla presidenza, mentre l’altro avrebbe designato chi sarebbe dovuto diventare vicepresidente. Quindi viene a nascere il “Ticket” il sistema con cui si presentano i candidati ancor oggi.
I candidati alla presidenza e i loro compagni di corsa non avrebbero mai più dovuto affrontare l’imbarazzante tipo di voto di parità che costrinse la Camera a scegliere tra Jefferson e Burr. Il Dodicesimo Emendamento fu proposto dall’Ottavo Congresso il 9 dicembre 1803 e presentato agli Stati tre giorni dopo. Essendo diciassette gli Stati dell’Unione a quel tempo, tredici dovevano ratificarlo. Il Segretario di Stato James Madison dichiarò che l’Emendamento era stato aggiunto alla Costituzione il 25 settembre 1804, quando quattordici dei diciassette Stati lo avevano ratificato. Il Delaware, il Connecticut e il Massachusetts lo avevano respinto (anche se il Massachusetts lo ratificò nel 1961!). L’elezione del 1804 e tutte le elezioni successive si svolsero secondo i termini del Dodicesimo Emendamento.
Oltre al riconoscimento implicito dell’esistenza dei partiti politici, l’Emendamento apportò un altro importante cambiamento: La Costituzione originale prevedeva che se un candidato non avesse raggiunto la maggioranza del collegio elettorale formato dai Grandi elettori, la Camera avrebbe dovuto scegliere come Presidente uno dei cinque candidati più votati, mentre la persona arrivata seconda sarebbe stata vicepresidente, a meno che non ci fosse stato un pareggio per il secondo posto, nel qual caso il Senato avrebbe scelto tra loro. Ora, però, la Camera avrebbe scelto solo il Presidente tra le prime tre scelte degli elettori; il Senato avrebbe scelto il Vicepresidente tra le prime due scelte degli elettori per quella specifica carica. Tra le altre cose, questo garantiva, in effetti, che ci sarebbe stato sempre un Vicepresidente, che avrebbe potuto presumibilmente prendere le redini della Presidenza nel caso in cui la Camera fosse stata irrimediabilmente divisa tra i primi tre candidati alla Presidenza.
Questo aspetto del Dodicesimo Emendamento divenne cruciale nel 1824, l’unica volta dal 1800 in cui la Camera selezionò il Presidente a seguito dell’incapacità di uno dei candidati alla presidenza di raggiungere la maggioranza dei voti elettorali. Andrew Jackson aveva ottenuto 99, John Quincy Adams 84, William Crawford 41 e Henry Clay 37. Secondo la Costituzione originale, la Camera avrebbe potuto scegliere tra tutti e quattro, e si potrebbe plausibilmente credere che Clay avrebbe potuto prevalere. Con il Dodicesimo Emendamento, tuttavia, Clay era fuori dai giochi e la scelta si ridusse a Jackson, Adams e Crawford.
Sebbene nessuna elezione dal 1824 sia stata decisa alla Camera dei Rappresentanti, uno spostamento di relativamente pochi voti in un piccolo numero di Stati chiave avrebbe potuto portare a quel risultato nel 1948, 1968 e 2000. Ciò significa, in pratica, che nell’America contemporanea, il Wyoming, lo Stato più piccolo con meno di 600.000 persone, avrebbe la stessa voce in capitolo nella scelta del nuovo Presidente della California, con una popolazione quasi 70 volte superiore a quella del Wyoming. Questo sempre perché negli USA si vota per delegati per Stato.
Il problema della residenza primaria
Però l’articolo 2 deella Costituzione Americana comunque afferma che : “Gli elettori si riuniranno nei rispettivi Stati e voteranno a scrutinio segreto per due persone, di cui almeno una non dovrà essere residente nello stesso Stato in cui si trovano”.
Quindi se Rubio e Trump risiedono entrambi in Florida, gli elettori della Florida non potrebbero votare per almeno uno dei due! La Florida è uno stato solidamente Repubblicano e questo costituirebbe un problema.
Nella maggior parte delle elezioni, questa stranezza del sistema non avrebbe nemmeno importanza. Nel 2008, Barack Obama avrebbe potuto scegliere un compagno di corsa proveniente dal suo Stato natale, l’Illinois, sia nel 2008 che nel 2012, senza alcun effetto negativo; lo stesso vale per Ronald Reagan nel 1980 o nell’84, George H.W. Bush nel 1988 e Bill Clinton nel 1992 o nel ’96.
Ma se un’elezione si rivela particolarmente combattuta, la regola potrebbe potenzialmente entrare in gioco. È quasi successo nelle elezioni del 2000, notoriamente molto combattute. Il governatore del Texas George W. Bush scelse Dick Cheney come suo compagno di corsa nella lista repubblicana, e Cheney aveva vissuto, votato e pagato le tasse per cinque anni in Texas. Poco prima delle elezioni, tuttavia, Cheney ottenne una patente di guida del Wyoming e mise in vendita la sua casa di Dallas. (Aveva una casa per le vacanze nel Wyoming, che è lo Stato che aveva rappresentato in passato al Congresso degli Stati Uniti).
È stato un bene per lui: Il ticket Bush-Cheney finì per vincere con 271 voti elettorali – solo un sottile margine di cinque voti – su Al Gore e Joe Lieberman, un totale che certamente non avrebbero raggiunto senza i 32 voti del Texas.
Quindi Donald Trump, se scegliesse Marco Rubio, dovrebbe cambiare residenza. Mossa che, sicuramente, poi i democratici gli contesterebbero. Questo, purtroppo, è un bel problema per il politico di origini cubane.
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