Attualità
100MILA ARTIGIANI E IMPRENDITORI CON PASSAPORTO RITIRATO. (di Alessio Bini)
Sono colpevoli soltanto di aver lavorato, durante una crisi così profonda che ancora non se ne vede la fine.
Non tutti lo sanno, ma non riuscire a pagare alcune tasse è considerato dallo Stato un reato penale. I più conosciuti tra questi sono i contributi detti a carico dei dipendenti, ma che in realtà sono a carico dell’imprenditore. Anche non pagare l’Iva ha rilevanza penale, ma oltre certi importi piuttosto alti.
Quando è iniziata la crisi, il calo di lavoro ha portato gli imprenditori a fare delle scelte: o pagare dipendenti, fornitori e bollette o pagare le tasse.
Ovviamente, non poteva essere diversamente: la maggior parte degli imprenditori in difficoltà ha deciso di rimandare il pagamento delle tasse, in attesa di tempi migliori, e hanno pagato le spese che consentivano loro di andare avanti.
In fondo, gli imprenditori si sono fidati dello Stato. Gli hanno dato tanto nei periodi di boom economico e nel bel mezzo della crisi chiedevano soltanto un po’ di comprensione.
Ma la crisi è continuata, gli incassi sono rimasti ai minimi storici e non c’è stato modo di recuperare il terreno perduto. Fino a quando non è arrivata la condanna penale. Lo Stato non ha voluto sentire ragioni. Quasi sempre, addirittura, l’imprenditore non si è nemmeno potuto difendere in Tribunale: la condanna è arrivata direttamente a casa. Attenzione: la legge dice che se l’imprenditore non paga i contributi, pur potendo, viene condannato. Non se in momenti di difficoltà non può pagare. Ma i giudici hanno interpretato questa norma in modo semplice e meccanico: non paghi? Ti becchi la condanna e non si discute.
Soltanto il Tribunale di Prato, in Toscana, e non più di cinque in tutta Italia hanno dato la possibilità di difendersi e di dimostrare che il mancato pagamento non era stato volontario, ma causato dalla crisi.
La conseguenza della condanna è stata che questi imprenditori, colpevoli soltanto di aver lavorato, si sono visti ritirare il passaporto.
La pena quantificata in qualche mese di carcere viene convertita in un’ammenda molto salata. Per estinguere la condanna penale, bisogna pagare.
E mentre un delinquente comune si vede restituire il passaporto dopo aver scontato la pena ai domiciliari, magari col permesso di recarsi al lavoro o ai servizi sociali, questi piccoli imprenditori, che magari avevano nel frattempo chiuso la propria attività, dovevano pagare la multa. E con quali soldi, se l’attività va male o se è addirittura chiusa? Passaporto ritirato a tempo illimitato, fino al completo pagamento.
C’è di più!
Se il periodo di difficoltà economica è durato più anni, cosa piuttosto comune, il Pubblico Ministero ha spesso preso in esame un semestre per la prima condanna. Il Giudice tende ad infliggere la prima condanna con la condizionale. Poi viene la volta del semestre successivo: seconda accusa, seconda condanna. Se anche in questo caso il Giudice ritiene di applicare la condizionale. Non solo il passaporto ritirato, ma addirittura la condizionale esaurita. Reato: aver lavorato senza diritti e senza orari, fidandosi di uno Stato che impone il pagamento delle tasse sempre e comunque.
Ovviamente l’imprenditore può impugnare il decreto di condanna. Lo può fare in appello, pagando in anticipo l’avvocato e il contributo unificato, ovvero la tassa che permette di accedere alla Giustizia: tutto si paga in Italia, come se l’Italia fosse un’azienda che eroga servizi. In totale sono qualche migliaio di euro, che l’imprenditore non aveva per pagare le tasse, figuriamoci per l’avvocato.
E’ una buia bolgia infernale, priva di ogni logica, che ha fatto dimenticare agli imprenditori persino quanto sia bella la luce del sole.
Il numero di 100mila condannati è un dato comunicato dalle Prefetture un paio di anni fa, ma è sicuramente in aumento, considerando che solo gli artigiani in Italia sono 1 milione e 700mila. E le condizioni che hanno causato queste condanne sono sempre là fuori: volumi d’affari ridotti e tasse impietosamente alte.
Ad onor della cronaca, Renzi nel 2017 ha innalzato a 10.000,00 euro la soglia penale per non aver pagato i contributi e a 150.000,00 euro la soglia penale per non aver pagato l’Iva.
Il secondo limite è piuttosto elevato, mentre il primo è davvero basso, ma sempre meglio del periodo pre-2017, quando le condanne penali fioccavano anche per poche centinaia di euro non pagate.
L’innalzamento della soglia penale è persino retroattivo, ma ha un risvolto kafkiano. I Tribunali non cancellano i reati in modo automatico. Per cui, l’artigiano o l’imprenditore deve pagare l’avvocato per ciascuna delle –se pur piccole- condanne penali che si è preso. Alla fine, non cambia molto pagare l’avvocato o scontare la pena, pagando le ammende. E se nel frattempo l’azienda è chiusa o se il lavoro è poco, i soldi non si trovano né per l’avvocato né per le ammende. Quindi, fine pena mai!
Questa è una delle ferite più profonde inflitte, non dalla crisi, ma da uno Stato che vuol ragionare come un’azienda e che cerca di massimizzare le entrate. Ma è un’azienda particolare, perché non ammette concorrenti e può farsi le leggi che più le fanno comodo.
Lo Stato deve essere il complemento di un’azienda e deve funzionare in modo diametralmente opposto: ti dà una mano quando sei debole e ti chiede una mano quando sei forte, per aiutare gli altri.
La ferita più profonda è presente nell’autostima di questi piccoli imprenditori che hanno aperto un’attività per realizzare i propri piccoli sogni (una casa, una famiglia, qualche vacanza) e invece si ritrovano al pari dei delinquenti comuni, anzi peggio, perché per loro un processo non c’è stato. Sarà difficile che, in tempi di migliori, avranno di nuovo la voglia di ricominciare.
Quando si pensa al significato di “reato penale”, la mente va a qualcosa di moralmente ripugnante, ad un gesto che attenta ad un’altra persona. Per questo, quando arriva una condanna penale ad un imprenditore che non ha fatto altro che lavorare, la ferita è così profonda che non ne parla con nessuno. Si sente sporco dentro. Ed è il motivo per cui questa lacerazione del tessuto sociale è poco conosciuta da chi un’azienda non ce l’ha.
Lo Stato, invece, parla solo di soldi, che sembrano diventati più importanti della morale stessa. Se si va ad indagare il significato di “reato penale”, scopriamo che oggi è considerato “reato” soltanto quello che viene inserito nel Codice Penale. Una definizione circolare, priva di significato. Da quando vogliono far funzionare lo Stato come un’azienda, tutto perde di significato in nome del risultato economico.
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