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Economia

Capire la Competitivita’: I costi unitari del lavoro ed i costi unitari del capitale

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Pubblichiamo questo articolo di Luca Pezzotta, piuttosto impegnativo, ma decisamente serio e tosto.

 PARTE 1

Il passaggio dei tecnici, o dei governi tecnici, sembrerebbe aver portato con sé una moda rimasta in auge anche dopo la dipartita degli stessi dalla “sede governativa”. Infatti, dopo esserci sentiti dare dei bamboccioni, dei mammoni che vogliono il lavoro vicino a casa (un paese che in cui l’emigrazione dal sud al nord, in cerca di lavoro, è una realtà da secoli; un paese che è emigrato in Argentina, Stati Uniti, nel Belgio con gli accordi carbone forza lavoro del dopoguerra, ecc. ecc.), di essere disoccupati e poco occupabili perché incompetenti, di aver vissuto come cicale spendendo troppo ed al di sopra delle nostre possibilità e molto, molto altro; ora l’ultima novità, di un governo che sembrerebbe essere politico, parrebbe quella per cui la nostra grave colpa è di essere poco produttivi e di avere un costo troppo elevato: in sostanza, non saremmo competitivi. Per cui, si insiste nel solco tracciato dal governo tecnico, descrivendo gli italiani e le loro proprie “inclinazioni socio-economiche” come l’unico problema dell’Italia, cercando così di scaricare sugli stessi colpe che storicamente e nei numeri non hanno. Non ci possiamo occupare ora ed in un solo articolo di tutto lo spettacolo andato in onda e che ha raggiunto “vette pindariche” come, per esempio, quella che vede nella Grecia il più grande successo dell’euro; ma ci interessa vedere l’ultima moda per farci sentire come “il e l’unico” problema: la bassa competitività.

Questa sarebbe dovuta al fatto che i lavoratori italiani avrebbero dei salari monetari troppo elevati rispetto alla produttività del loro lavoro. Pertanto, visto che la svalutazione della moneta non è possibile, perché non tutte le nazioni che fanno parte dell’Euro sarebbero favorevoli ad una simile misura senza averne realmente bisogno e considerata la rigidità fiscale imposta dalla UE; sembrerebbe che le soluzioni per il miglioramento della competitività possano avvenire solo attraverso degli aggiustamenti nel mercato del lavoro per mezzo di politiche di c.d. svalutazione interna. Per cui, l’analisi riguarderebbe i costi unitari del lavoro e la soluzione passerebbe attraverso una riduzione dei salari nominali dei lavoratori.

Considerato che quanto appena prospettato non raccoglie il plauso di chi scrive e nemmeno il minimo consenso, abbiamo cercato in rete, tramite siti di istituti economici eterodossi, dati, proposte e soluzioni, che potessero evitare di colpire ancora una volta i soliti noti. Non abbiamo trovato solo dati che non avallano in nessun modo la “colpa” di essere troppo costosi, ma addirittura un modo diverso, rispetto alla disciplina ortodossa mainstream, di approcciarsi ai costi unitari del lavoro; ed in prospettiva anche l’ipotesi che, a livello aggregato, il discorso sui costi unitari del lavoro implichi, per forza di cose, una discussione sulla distribuzione funzionale del reddito. Per cui gli autori, che sono Jesus Felipe e Ustav Kumar, dell’Asian Development Bank di Manila nell’working paper n° 651 (http://www.levyinstitute.org/pubs/wp_651.pdf) del Levy Economics Institue of Bard College, espandono l’analisi sui costi unitari del lavoro alla distribuzione tra entrate e profitti, ipotizzando una diminuzione della competitività, a livello aggregato, che potrebbe trovare la sua ragione in una maggiore diminuzione della produttività del capitale rispetto al tasso di profitto dello stesso. Per cui anche l’ultima moda, “i costi unitari del lavoro troppo elevati che implicherebbero la diminuzione dei salari nominali per tornare più competitivi”, sembra essere la solita vuota formula economica mainstream per scaricare “verso il basso” responsabilità e costi dell’attuale situazione.

Cercheremo di fare un riassunto del lavoro evitando, ove possibile, le parti matematiche che sono solitamente le più ostiche e che saranno molto probabilmente pubblicate in successivi articoli per chi volesse approfondire, oppure nella traduzione integrale dell’working paper stesso, senza però trascurarle ove necessario.

La prima considerazione, fatta dagli autori, è relativa alla stessa letteratura economica. Infatti secondo il “paradosso di Kaldor” (1978) non vi è relazione empirica tra la crescita dei costi unitari del lavoro e la crescita di produttività. N. Kaldor ha rilevato che nel dopoguerra le nazioni che avevano avuto un peggioramento della competitività dei loro prezzi, cioè un aumento dei costi unitari del lavoro, avevano anche registrato la maggiore crescita della loro quota di mercato. Per cui trattare i costi unitari del lavoro considerando che una loro riduzione, dovuta a una diminuzione dei salari nominali, possa portare ad un aumento della competitività che ridia slancio all’economia, pare troppo semplicistico e ottimista, ed inoltre i dati e la letteratura preesistente non confermano questa tesi.

Nonostante questo, la riduzione dei costi unitari del lavoro sembra diventata una necessità improcrastinabile vista la necessità di competere con economie in cui il mercato del lavoro ha un costo minore. Per mostrarci la differenza tra dei costi unitari del lavoro “competitivi” e quelli dei paesi in crisi è spesso stato utilizzato questo grafico  a termine del quale i costi unitari del lavoro nominali dei paesi ormai noti come PIIGS sono, tra il 1995 ed il 2008, aumentati rispetto a quelli della Germania, che sono rimasti sostanzialmente costanti (o hanno avuto variazioni di minimo rilievo).

Figura 1 – costi unitari del lavoro nominali

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I costi unitari del lavoro sono definiti come il rapporto della retribuzione complessiva del lavoro, salario monetario, e la sua produttività; e considerando che il numeratore (salario) sarà espresso in euro, mentre il denominatore in quantità prodotta (per es. matite), il costo unitario del lavoro è misurato in euro per quantità prodotta (euro per matita in questo caso). Algebricamente:

ulcq = wn /(q/L)      (1)

dove wn è il compenso per il  lavoro (salario nominale), q è la produzione fisica, L il lavoro. Dopodiché nella pratica standard si procede a una media ponderata dei costi per le aziende per trarne un “indicatore” a livello complessivo o aggregato dell’economia. Questo modo di procedere può essere fuorviante. Infatti, mentre se a livello di impresa l’equazione sopra riportata è appropriata, il suo utilizzo a livello aggregato non è possibile, in quanto la misura della produzione aggregata non è una quantità fisica ma il valore aggiunto dell’economia. Pertanto, sarà necessario utilizzare, nel calcolo dei costi unitari del lavoro, il valore aggiunto in termini reali dell’economia: cioè il valore aggiunto nominale diviso per il deflatore del PIL, in euro su base annua.  Il risultato, è che la formula, utilizzata dai ricercatori, per calcolare i costi unitari del lavoro a livello aggregato, algebricamente, è data dai salari nominali sul valore aggiunto dell’economia in termini reali (o di un settore); e pertanto il valore aggiunto nominale sul deflatore del PIL (euro su base annua) diviso per il numero dei lavoratori:

ULC = wn / ALP = wn / ( VAr / L ) = wn / ( VAn / P ) / L     (2)

dove ULC sono i costi unitari del lavoro, wn è la media del tasso di salario monetario o compensazione del lavoro, ALP è la produttività del lavoro media, VAr è il valore aggiunto reale (in euro su base annua), L il numero di lavoratori e P il deflatore del valore aggiunto. Ne risulta che a livello aggregato i costi unitari del lavoro sono una grandezza adimensionale. Utilizzando questa formula e i dati dell’OCSE per tutte le variabili, tenendo il 2005 come anno di riferimento per il valore aggiunto a prezzi costanti, si ottiene un grafico abbastanza differente.

Figura 2 – costi unitari del lavoro nell’Eurozona

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Come si può notare i costi unitari del lavoro rispetto al 1980 sono saliti in tutti i paesi “analizzati”; e si può altrettanto facilmente notare che in Grecia, per es., sempre nel periodo di riferimento analizzato,  sono saliti molto più che in Germania, partendo da un livello molto inferiore a quello tedesco e arrivando, in meno di trent’anni, ad un livello superiore. Ma infine, quello che si vede è un aumento dei costi unitari del lavoro per tutte le nazioni, con una convergenza verso quelli che al 1980 erano i più alti, cioè, quelli di Germania e Austria. Ancora, guardate i costi unitari del lavoro in Irlanda, al 2007 erano superiori solo a quelli di Lussemburgo, eppure questo non li ha “salvati” dal finire nei PIIGS. Francia, Olanda, Belgio e Austria, che con la Germania avevano costi unitari del lavoro più elevati dal 1980, non sembra soffrano di appellativi o epiteti che li comparano a più o meno nobili animali.

A conferma di quanto detto un grafico della European Round Table avalla la sensazione che la “forbice” tra i costi unitari del lavoro di alcuni dei paesi analizzati nei grafici sopra riportati siano più simili a quelli del secondo grafico piuttosto che del primo.

Figura 3   

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 Pertanto, non sembra possibile che il problema possa essere discusso dal mero e semplicistico punto di vista ai termini del quale una riduzione dei costi unitari del lavoro, tramite l’abbassamento dei salari nominali per tornare competitivi, possa risolverlo; in quanto nazioni con costi unitari simili ai nostri non soffrono del medesimo problema. Questo, corroborato da quello che in letteratura è conosciuto come il “paradosso di Kaldor”, ci porta a pensare che il problema non siano i salari nominali e che una loro eventuale diminuzione non lo risolverà. Ma allora quale è il problema?! E come affrontarlo?! Cercheremo di vederlo nella seconda parte dell’articolo.               

 PARTE 2

Abbiamo visto che i costi unitari del lavoro a livello aggregato non possono essere calcolati con una semplice media dei costi unitari del lavoro a livello di impresa, ma che sarà necessario utilizzare il valore reale aggiunto dall’economia. Quindi l’equazione che tiene conto di questo, come visto, è la (2) che può anche essere scritta nel modo seguente:

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Per cui i costi unitari del lavoro in una economia non sono altro che la quota del lavoro nell’economia espressi da una grandezza adimensionale  – dove s sta per share (quota), all’apice di questa troviamo n di nominale e al pedice la l di lavoro, quota nominale del lavoro – moltiplicata per il deflatore del prezzo (altra grandezza adimensionale). Questo perché il valore aggiunto nominale VAn è uguale al compenso per i salari nominali totali del lavoro Wn più i profitti totali Πn. Wn può essere espresso come il prodotto della media del tasso del salario nominale (wn) per il numero dei lavoratori (L); e i profitti totali possono essere espressi come il prodotto dei tassi di profitto nominali ex post (rn) moltiplicati per lo stock di capitale (K). Quindi la quota nominale del lavoro della produzione totale, espressa come poche righe spora ricordato ed in termini nominali, , è identicamente uguale al tasso medio del salario nominale moltiplicato per il numero di lavoratori, diviso il valore aggiunto nominale (wnL/VAn). Mentre la quota del capitale della produzione totale (sempre in termini nominali)     è identicamente uguale al tasso di profitto nominale ex post moltiplicato per il capitale diviso il valore aggiunto nominale (rnK/VAn). A queste grandezze per definizione viene aggiunto 1, implicando così, per forza di cose, che una discussione sui costi unitari del lavoro non possa prescindere da una discussione sulla distribuzione funzionale del reddito. Algebricamente questo passaggio risulta espresso nel modo seguente:

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Ora, come sopra detto, le due componenti dei costi unitari del lavoro a livello aggregato sono la quota nominale del lavoro (labor share) ed il deflatore del prezzo. Pertanto possiamo confrontare – nei grafici sotto riportati (figura 4) – la quota nominale del lavoro con i costi unitari del lavoro ed il deflatore del prezzo per i dodici paesi finora presi in considerazione: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna. In blu l’andamento della quota nominale del lavoro o labor share (scala di sinistra), in rosso i costi unitari del lavoro (sempre sulla scala di sinistra), mentre in verde l’indice dei prezzi (sulla scala di destra).     

Figura 4 – costi unitari del lavoro scomposti

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Come si può notare da una analisi qualitativa, che riguarda pertanto solo gli andamenti, la quota lavoro aumenta solo in Grecia, resta più o meno costante in Portogallo e Lussemburgo, mentre diminuisce in tutti gli altri paesi (Italia compresa), mentre il trend del deflatore del prezzo è in aumento in tutti i paesi così come i costi unitari del lavoro. Pertanto, in Italia, non sembra possibile addebitare una perdita di competitività all’aumento della quota lavoro, visto che la quota lavoro è in diminuzione, bensì l’aumento dei costi unitari del lavoro sarebbe dovuto al deflatore del prezzo che segna un trend in ascesa come quello dei costi unitari del lavoro; e alla sua convergenza verso quelli più alti del nord Europa. I PIIGS all’inizio degli anni ’80 avevano i costi unitari del lavoro più bassi. Pertanto non sarebbero i costi unitari del lavoro che hanno fatto salire i prezzi, bensì i prezzi, che convergevano a livello europeo, che hanno fatto salire i costi.  

Come ricordato, inoltre, quando si parla di costi unitari del lavoro a livello aggregato è implicita una discussione sulla distribuzione funzionale del reddito, pertanto, sostenere che i costi unitari del lavoro devono essere contenuti tramite una diminuzione della quota lavoro, vuol dire supportare l’idea di una maggiore quota capitale. Infatti, al contrario della quota lavoro, la quota capitale, rispetto al 1980, segna un aumento in tutte le nazioni meno che in Grecia.

Figura 5 – quote capitale nell’eurozona, 1980=100

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I maggiori aumenti della quota capitale si registrano in Austria, Irlanda, Francia e Italia; e si fa anche notare che mentre la quota lavoro scendeva in nove paesi, restava costante in due e aumentava in uno, la quota capitale aumenta in undici paesi su dodici. Ma la maggiore implicazione di questo è dovuta al fatto che se i costi unitari del lavoro forniscono una misura della competitività dal lato dei lavoratori, si può benissimo ipotizzare una misura parallela che invece determini la competitività dal lato delle imprese. Dal lato delle imprese la competitività è data dal rapporto tra il tasso di profitto nominale e la produttività del capitale, quindi la quota capitale nel valore aggiunto moltiplicato per il deflatore del prezzo. Cioè:

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Dove UKC sono i costi unitari del capitale, rn è il tasso di profitto nominale ex post, VAn è il valore aggiunto nominale, e K è la quantità di capitale. I costi unitari di capitale sono in aumento dal 1980 in tutti i 12 paesi di cui trattasi.

Figura 6 – costi unitari del capitale nell’eurozona

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Così abbiamo visto che i costi unitari del lavoro sono aumentati; e lo hanno fatto (in Italia, come nelle altre nazioni, salvo i casi di Grecia in cui la quota lavoro è aumentata, Portogallo e Lussemburgo dove è rimasta più o meno costante) non a causa di un aumento della quota lavoro, che è invece in diminuzione, bensì in relazione al deflatore del prezzo. Pertanto non sono i costi che hanno fatto salire i prezzi, ma i prezzi che hanno fatto salire i costi, convergendo verso i più elevati costi unitari del lavoro (almeno fino al 2000) delle nazioni della Mitteleuropa. Abbiamo anche notato che invece i costi unitari del capitale sono in aumento in tutti i 12 paesi analizzati. Ora, sapendo che sia i costi unitari del lavoro che quelli del capitale fanno parte dei costi strutturali che le imprese sopportano, sarebbe necessario vedere quali dei due siano cresciuti in maniera più elevata, affinché si possa capire quelli che abbiano avuto l’incidenza maggiore  e porre, eventualmente, a loro carico le necessità e gli oneri di “aggiustamento”.   

Tavola 1 – Costi unitari del lavoro (ULC) e costi unitari del capitale (UKC) nell’Eurozona nel 2007 relativi ai livelli del 1980 e del 1995.

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Come si può vedere i costi unitari di capitale nel 2007, rispettivamente ai loro livelli sia del 1980 che del 1995 sono saliti più velocemente dei costi unitari del lavoro. Pertanto l’aumento dei costi strutturali non sembrerebbe poter essere addebitabile in toto e nemmeno per la parte maggiore ai costi unitari del lavoro. Anzi, i costi unitari del lavoro sono aumentati a causa del deflatore del prezzo e non della quota lavoro, mentre il loro aumento ha avuto una incidenza minore rispetto all’aumento dei costi unitari di capitale. Per cui non sembra possibile porre a carico dei lavoratori gli aggiustamenti tramite una riduzione dei salari nominali, perché se la soluzione fosse la riduzione della quota lavoro non avremmo il problema, visto che la quota lavoro è già da anni in diminuzione. Pertanto, se la quota lavoro non è il problema, una riduzione di questa non può nemmeno essere la soluzione. 

PARTE 3

Abbiamo visto che la quota lavoro è in diminuzione nei costi unitari del lavoro come detto nelle prime due parti; che, invece, la quota capitale è in aumento e anche i costi unitari di capitale sono quindi in aumento. La diminuzione della quota lavoro e, pertanto, dei salari nominali, non ci ha aiutato nell’evitare di finire tra i PIIGS; mentre lo spostamento della quota lavoro verso la quota capitale non è stato nemmeno preso in considerazione o per lo più è stato ignorato.  Abbiamo visto che considerare i costi unitari del lavoro a livello aziendale non è la stessa cosa che considerarli a livello aggregato, infatti se la diminuzione dei costi unitari a livello di impresa potrebbe significare un recupero della competitività, a livello aggregato non funziona così, perché utilizzandosi il valore aggiunto la quota capitale gioca un ruolo che, per definizione, non ci permette di escludere una discussione sulla distribuzione funzionale del reddito.

Tirando le fila, notiamo che sono i costi unitari di capitale che sono aumentati maggiormente rispetto ai costi unitari del lavoro, questi, invece, sono aumentati in ragione dei prezzi, per cui il problema non può essere discusso nei meri termini di una diminuzione dei salari nominali che diminuendo i costi unitari del lavoro ci rendano più competitivi, perché a livello aggregato non abbiamo perso competitività a causa dell’aumento della quota lavoro, bensì a quello della quota capitale; e pertanto non sono i cosi unitari del lavoro che sono scesi meno velocemente della produttività del lavoro, ma i costi unitari di capitale che sono scesi meno velocemente della produttività del capitale, alias, il tasso di profitto è sceso meno velocemente della produttività del capitale.

Quindi, visto che nei fatti c’è effettivamente già stato un “trasferimento” di risorse dal lavoro al capitale, semmai fosse necessario porre a carico di qualcuno la perdita di competitività o gli eventuali costi per recuperarla, questo qualcuno non dovrebbe essere, abbastanza chiaramente, il lavoro. E questo grafico degli USA – visto che quelli che riguardano i paesi EU li abbiamo visti precedentemente –  illustra abbastanza chiaramente l’andamento di stipendi e profitti dal 1940. Vediamo – limitando l’analisi all’inizio del terzo millennio – che dal 2002 (più o meno) i profitti (linea rossa) sono praticamente “esplosi” mentre i salari (linea blu) hanno continuato, seguendo un trend iniziato a fine anni ’90, a scendere. Inoltre, mentre appena  dopo il crollo di Lehman B. e prima del 2010, i profitti erano quasi tornati ai livelli precedenti alla crisi (le aree in grigio indicano i periodi di recessione) e, appena dopo il 2010 stesso, sono aumentati ad un livello addirittura superiore a quello precedente la crisi; i salari  hanno continuato a scendere sia durante la crisi (in modo più marcato) che dopo.   

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Invece, ancora una volta, si cerca il problema dove non c’è e se ne trae la solita soluzione pro-ciclica, fatta di tagli, che non ha altro risultato che diminuire il reddito disponibile e rischiare di contrarre ulteriormente la domanda. Ed è qui che prende corpo l’altro tema trattato che riguarda la distribuzione funzionale del reddito. Infatti un trasferimento della quota lavoro alla quota capitale, pur stimolando inizialmente gli investimenti, ammesso e concesso che le imprese determinino il profitto con il mark up sui costi unitari del lavoro e che la propensione marginale al consumo del lavoro sia maggiore di quella del capitale (ed in effetti lo dovrebbe essere vista la ripartizione su più individui del reddito da fattore lavoro rispetto a quello capitale), porta, se protratta, ad una crisi dei consumi. Ad una quantità maggiori di investimenti che possono far aumentare la produzione e quindi l’offerta, non seguirà pertanto una crescita di consumi e quindi di domanda; si creerà una mancata corrispondenza tra le due che costringerà le imprese a ridurre la capacità ed aumentare il gap produttivo, lasciando risorse inutilizzate, con l’ulteriore risultato di un’altra diminuzione di redditi e occupazione. E così in una spirale ciclica che porta disoccupazione, sottoccupazione, una perdita rilevante nei redditi, nei risparmi e conseguenze sociali anche ben peggiori. Un aumento della quota lavoro, invece, pur potendo significare una minore quota di investimenti, porta ad un aumento dei consumi; pertanto, mentre in una fase iniziale la diminuzione di investimenti guiderà l’offerta aggregata nel crescere più lentamente della domanda aggregata e, se troppo lentamente, una crisi di redditività; in una fase successiva e comunque di breve-medio periodo, l’aumento dei consumi aumenterà la capacità di utilizzazione, ridurrà il gap produttivo che a sua volta aumenterà la crescita dello stock di capitale, bilanciando così l’iniziale diminuzione degli investimenti.

Ma anche se il discorso relativo alla distribuzione funzionale del reddito non può essere trascurato e, come abbiamo visto, testimonia uno spostamento di reddito dalla quota lavoro alla quota capitale; la tesi speculare, ma questa volta dal punto di vista dei profitti, a quella sopra enucleata e per la quale la riduzione dei salari nominali “restaura” la competitività, per cui sarebbe sufficiente diminuire, in questo caso, la quota capitale (e/o di profitti) per tornare competitivi, è altrettanto riduttiva e fuorviante. Infatti, pur se vero che i profitti sempre maggiori e a tutti i costi sono stati una ragione della crisi in cui ci troviamo, limitare l’idea di “capitale”, in economia, ad un contesto completamente avulso dall’altro fattore produttivo che è l’organizzazione imprenditoriale e che tramite gli investimenti stimola la tecnologia, la ricerca, la formazione e lo sviluppo, non può essere accettato; questo perché la scala di produzione aggregata non può prescindere da questi elementi. Ricordiamo, che pur se l’Italia come complessità [http://www.atlas.cid.harvard.edu/country/ita/] non risulta essere tra le prime posizioni (variando proprio la posizione a seconda delle fonti di riferimento, 16° posto nel link segnalato)  è invece al primo posto con diversificazione del prodotto, nel senso che – in questo caso riferendoci allo studio dal quale questi articoli procedono – l’Italia è il paese che esporta più prodotti con rilevato vantaggio comparato. Pertanto il “portafoglio” di prodotti dell’Italia pur non primeggiando nella complessità, primeggia nella diversificazione. Questo dovrebbe comportare una maggiore flessibilità, per l’Italia, nella risposta dell’offerta alle variazioni della domanda aggregata dovuta alla variazione nella “preferenza” dei consumatori, oltre che garantire quello che è riconosciuto da tutti come un vantaggio “ex sé”: la diversificazione del “portfolio” di investimento e produttivo.    

Concludendo, la riduzione della quota lavoro è in corso da tempo e per questo non può essere né la soluzione né il problema, al contrario la quota capitale è in aumento. Questo spostamento di risorse dal reddito al profitto non è sinonimo di per se di una possibile crisi dei consumi, in quanto potrebbe determinare investimenti produttivi che creano “nuovo” lavoro e quindi una crescita che garantisce sia i livelli di salario che di profitto. Per cui la soluzione non può essere discussa nei meri termini di tagli ai salari o ai profitti, bensì in termini nei quali quello che dovrebbe contare, oltre che la “qualità” del lavoro (intesa come qualità del lavoratore e/o un buona professionalità e tecnica oltre che del posto di lavoro come, per es. il rispetto delle regole sulla sicurezza) è il capitale in senso “profondo”; comprendendo in questo le risorse che vengono utilizzate per migliorare il fattore organizzazione imprenditoriale e lavoro, tramite investimenti in ricerca e sviluppo, per migliorare le tecnologie esistenti o trovarne delle nuove, per la formazione dei dipendenti, per le infrastrutture produttive, ecc. ecc. Ancora, quello che si prospetta non è la solita teoria conflittuale che trova la sua ragione nella contrapposizione della dicotomia lavoro-capitale in cui uno deve essere sacrificato all’altro, bensì un contesto che vada oltre questa mera contrapposizione-conflitto, per superare la crisi attuale tramite la rivalutazione del “fattore lavoro” (specializzazione, formazione, certificazione, ecc. ecc.) e anche di quello “capitale” – inteso, non solo come “soldi da investire”, bensì come capacità di utilizzare in maniera piena, propria e sostenibile, le risorse disponibili – in modo da recuperare posizioni nel ranking della complessità e sempre mantenendo e migliorando la diversificazione del prodotto. Non sono  il lavoro ed i lavoratori che vanno penalizzati, e nemmeno gli imprenditori (soprattutto quelli della piccola media impresa), ma quello che impedisce loro di “dispiegare” le proprie migliori attitudini; e non è certo tramite un taglio della retribuzione del lavoro e della remunerazione del capitale che si risolverà il problema – anche se per talune istituzioni finanziarie questo sembra necessario.

Quello che sosteniamo ci sembra anche ben provato dal report 2013-2014 sulla competitività del World Economic Forum, dove si esplicita chiaramente che la nostra economia è “guidata” dall’innovazione; e che l’efficienza del mercato del lavoro è uno dei problemi – e come visto non può essere addossato al lavoro – con mancanza di innovazione, tecnologia, sviluppo dei mercati finanziari, istituzioni, ecc. ecc. 

Fasi dello sviluppo – Italia

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Mentre per una migliore comprensione di quali siano gli aspetti più problematici alleghiamo questo grafico preso sempre dal report sulla competitività del 2013-2014 del World Economic Forum.

I fattori più problematici per fare business – Italia

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Come possiamo vedere abbiamo tasse troppo alte, un difficile accesso al credito (problema per gli investimenti), l’inefficienza della burocrazia governativa e solo al quarto posto una restrittiva regolamentazione del lavoro – che non significa peraltro la necessità di ridurre la quota lavoro – e poi ancora la regolamentazione delle tasse, l’instabilità politica, la corruzione, la mancanza di infrastrutture, ecc. ecc.

Per cui la prospettiva della riduzione dei costi unitari del lavoro tramite l’abbassamento della quota lavoro non è il problema, non è la soluzione, ed è una lettura dei fatti fuorviante e che non trova riscontro nella letteratura economica preesistente, nei numeri e nemmeno nei report delle organizzazioni che si “occupano” di competitività. Le crisi, non prendendo in questo caso in considerazione la svalutazione della moneta o l’uscita dall’unione monetaria (soluzioni plausibili ma che non fanno parte di questa analisi che si limita a considerare i costi unitari del lavoro), si risolvono con provvedimenti anti-ciclici che sono di spesa pubblica e di investimento privato, oltre che, almeno in parte nel caso dell’Italia, con la diminuzione della burocrazia e delle tasse; e non con delle misure pro-cicliche che essendo fatte di aumenti di tasse e tagli non fanno altro che diminuire il reddito disponibile, trascinando l’economia in una spirale recessiva dove i costi vengono sempre scaricati verso il basso.

 

 By GPG Imperatrice

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