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Crisi

LA VITA IN CHIAVE DI MORTE

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 Immaginiamo che un docente spieghi che la somma degli angoli interni di un triangolo equivale ad un angolo piatto, e che uno dei presenti obietti: “No, non è possibile. Sarebbe troppo brutto. Che speranze avremmo, se così fosse? Bisogna credere che si arrivi almeno a 270°. Lei è un disfattista e, mi scusi, dimostra di non tenere per nulla al bene della nazione”.

La storiella sembra assurda. In effetti quel dato geometrico è considerato da sempre incontrovertibile e nessuno si è mai chiesto se bisognasse considerarlo benefico o malefico. Purtroppo, molti di coloro che riderebbero della contestazione del teorema poi sarebbero capaci di applicare ad altri problemi quel tipo di “ragionamento”. C’è un esperimento che si può fare praticamente col primo venuto. Se si afferma che non abbiamo un’anima immortale, molta gente non controbatte dimostrandone l’esistenza, ma chiedendoci se dunque ci pare che non ci sia nulla, oltre quello che vediamo. Se siamo uguali agli animali. Addirittura se potremmo avere pensieri elevati se non avessimo in noi quella scintilla di spiritualità, anzi di divinità che è l’anima. Senza accorgersi che tutto questo non dimostra nulla e corrisponde soltanto a dire: “A me piace pensare di averla, l’anima immortale. Dunque ce l’ho”.

Questo atteggiamento si ritrova pari pari nella considerazione dell’attuale situazione economica. Tutti i dati oggettivi sono negativi e tuttavia c’è una sorta di volontà comune di chiudere gli occhi su di essi. Dobbiamo dire che ne usciremo, che così certo non può certo continuare e qualcosa deve succedere. Come se questo qualcosa non potesse addirittura costituire un peggioramento. E poi, chiedono gli ottimisti, perché non credere, almeno un po’, ai messaggi incoraggianti e rassicuranti che il nostro Primo Ministro, simile ad un instancabile muezzin,  ci grida più volte al giorno dall’alto? “Chi ti dice che, con tanta passione e tanta volontà,  non riuscirà a fare qualcosa di grandioso? Mai dire mai”. Molti pensano: “Anche se razionalmente dovrei essere pessimista, se lo fossi renderei ancor più probabile l’esito catastrofico. L’ottimismo invece fornisce una speranza, incoraggia all’azione, e l’azione è il primo passo verso la salvezza”.

Nobili parole. Ma che il piccolo, insignificante cittadino sia pessimista od ottimista non cambia nulla nel Paese. L’azione può compierla chi ha il potere formale – per esempio i politici – o sostanziale, cioè la burocrazia, la magistratura, e soprattutto l’opinione pubblica. Dunque l’argomentazione risulta fantastica, un po’ come quella che comincia: “Se io fossi il dittatore d’Italia…”

L’ottimismo rispetto all’incerto è lodevole: inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Ma l’ottimismo malgrado i dati obiettivi è folle. È come negare i 180° dell’angolo piatto. Il pessimista può sbagliare tanto quanto l’ottimista, ma è lecito controbattere le sue affermazioni soltanto con argomenti che smentiscano la sua tesi: diversamente si oppone un sentimento ad un dato. E sappiamo tutti che, se così fosse, nessuno morirebbe di cancro.

L’ottimismo della volontà ha tuttavia un ambito più generale e una spiegazione più profonda. Un’ accurata percezione della realtà sarebbe per molti psicologicamente catastrofica. Come accettare il proprio mediocre successo professionale, sentimentale, sessuale, familiare e sociale? Come ammettere che la vita non ha senso, e che dopo esserci tanto affannati in fin dei conti non avremo concluso niente? Soprattutto, come accettare che moriremo e non esisteremo più, né per noi stessi, né per gli altri, che presto ci dimenticheranno? Da questo derivano i mille contorcimenti della nostra società quando si tratta di morte. La convenzione è che i morti sono “loro, ieri”, non “noi, domani”. Sono morti quelli che non sono stati abbastanza attenti ad evitare quella brutta conclusione. Mentre noi, tiè, facciamo le corna e ridiamo.

Ecco la radice dell’ottimismo. Non bisogna guardare in faccia l’intera realtà perché il risultato sarebbe paralizzante. Una precisa coscienza della nostra parabola esistenziale potrebbe pietrificarci come lo sguardo della Medusa. Da ciò gli inviti, vagamente scandalizzati, rivolti al pessimista: “Suvvia, dimentica i tuoi ragionamenti, dimentica i dati, dimentica tutto. Sorridi, spera, e anche tu sarai immortale”.

E invece c’è un’altra soluzione, che personalmente ho scelto da giovane, meno che ventenne. Bisogna guardare la Medusa negli occhi senza divenire di pietra. Bisogna credere veramente, e perfino emotivamente, che moriremo, e poi organizzare tutta la vita, piaceri inclusi, intorno a questa coscienza. Non rimuovendola ma accettandola. Se ci fermiamo a piangere sulla nostra morte non la eviteremo, se cerchiamo di dimenticarla falsiamo tutti i nostri calcoli, perché non teniamo conto di un dato fondamentale.

La coscienza della vanità del tutto non ci deve paralizzare, deve servire a pesare correttamente le nostre esperienze, a corazzarci con la saggezza contro le delusioni del cuore o dell’ambizione, a sopportare perfino il dolore con l’idea che un giorno, se da morti potessimo avere dei rimpianti, rimpiangeremmo il momento in cui ancora avevamo la possibilità di soffrire.

Gianni Pardo, [email protected]

30 agosto 2014

 

P.S. Per chi ha tempo. Me mi si può irridere chiamandomi “filosofo”, Ricolfi è un grande tecnico, di sinistra per giunta. E il fatto che siamo giunti alle stesse conclusioni, del tutto indipendentemente, è una conferma (almeno per me) della plausibilità di queste idee, per quanto riguarda l’economia. Allego l’articolo anche per poterlo ritrovare, a sostegno delle mie idee.

30/08/2014 LUCA RICOLFI

Italia di nuovo in recessione, Italia in deflazione, fiducia dei consumatori di nuovo giù, disoccupazione ai massimi. La raffica di dati negativi che arrivano dall’Istat non è di quelle che tirano su il morale. E tuttavia, a mio parere, la notizia non c’è, o meglio c’è solo per il governo e per gli osservatori più ottimisti, che hanno passato mesi a intravedere una svolta di cui non si aveva alcun indizio concreto. Dapprima non si è voluto credere alle ripetute revisioni delle previsioni sul Pil pubblicate dagli organismi internazionali, senza accorgersi che non erano troppo pessimistiche ma semmai ancora troppo ottimistiche. Poi si è alimentata l’ingenua credenza che i 10 miliardi stanziati per il bonus avrebbero potuto rilanciare i consumi, salvo poi amaramente confessare che «ci aspettavamo di più». Infine non si è voluto dare alcuna importanza ai drammatici dati sul debito pubblico, cresciuto di 100 miliardi in appena 6 mesi, una cosa che non era mai successa dall’inizio della crisi. Nonostante tutto ciò, e nonostante i dati Istat dei giorni scorsi non mancheranno di suscitare qualche reazione, penso che torneremo presto a infischiarcene e ad ascoltare la canzoncina del paese che «cambia verso», dello sblocca-Italia, della svolta epocale, dell’Europa che deve fare la sua parte, di papà Draghi che deve proteggerci da lassù (per chi non lo sapesse, il governatore della Banca Centrale Europea abita in una torre altissima, detta appunto Eurotower). La ragione per cui penso che poche cose cambieranno è molto semplice, ed è che una cosa è la crisi, una cosa diversa è il declino; una cosa è una società povera, una cosa diversa è una società ricca. Una società povera che incappa in una crisi ha molte possibilità di rialzarsi perché non può non accorgersi della gravità di quel che le succede, e non può non sentire la spinta ad automigliorarsi. Una società ricca che è in declino da due decenni (ma secondo molti studiosi da più tempo ancora) può benissimo sottovalutare quel che le succede, e avere ormai esaurito la spinta all’automiglioramento. L’Italia, se si eccettua il segmento degli immigrati (che alla crisi hanno reagito e continuano a reagire molto bene: 91 mila posti di lavoro in più negli ultimi 12 mesi), è precisamente nella seconda condizione. Dal momento che il nostro declino è lento (perdiamo l’1-2% del nostro reddito ogni anno), e la maggior parte della popolazione ha ancora riserve di denaro e di patrimonio, è molto facile cullarsi nell’illusione che basti aspettare, che prima o poi il sole tornerà e la ripresa dell’economia rimetterà le cose a posto. Di fronte a questo deprecabile ma comprensibile stato d’animo dell’opinione pubblica, molto mi colpisce che anche la classe dirigente del paese, che pure dovrebbe avere occhi per cogliere il dramma del nostro declino, si mantenga tutto sommato piuttosto calma e compassata, limitandosi alle solite invocazioni che sentiamo da trent’anni (ci vuole un colpo di reni, dobbiamo fare le riforme), senza alcuna azione incisiva o idea davvero nuova. E qui non penso solo alla insostenibile leggerezza del premier, che un mese fa snobbava i primi dati negativi sul Pil («che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone»), e provava a tranquillizzare gli italiani con ardite metafore metereologiche (la ripresa «è un po’ come l’estate, arriva un po’ in ritardo ma arriva»). Penso anche alla mancanza di idee coraggiose da parte del sindacato, ancora impigliato nei meandri mentali del secolo scorso. O alla leggerezza con cui la Confindustria ha avallato il bonus da 80 euro, una misura che non ha rilanciato i consumi e in compenso ha bruciato qualsiasi possibilità futura di ridurre Irap e Ires, ossia una delle pochissime cose che un governo può fare per sostenere subito, e non fra 1000 giorni, la competitività e l’occupazione (per inciso: ieri Squinzi ha picchiato duro contro il bonus, scordandosi completamente delle sue dichiarazioni di giugno, quando aveva spiegato di non averlo contrastato per ragioni politiche, perché «le elezioni europee erano più importanti»). Ecco perché mi è difficile essere ottimista. Se l’opinione pubblica è incline al vittimismo ma si limita a sperare in tempi migliori, se la classe dirigente vive di annunci e piccole manovre, è del tutto illusorio pensare di «fermare il declino», per riprendere il nome di una sfortunata lista elettorale. Ma, attenzione, il declino potrebbe anche non essere lo scenario peggiore. La notizia che l’Italia è entrata in deflazione sarà probabilmente seguita da sempre più insistenti richieste di misure di «sostegno della domanda», anche a costo di aumentare ulteriormente il nostro debito pubblico. E’ possibile che tali misure vengano attuate. E che lo siano con il consenso dell’Europa, sempre più spaventata dallo spettro della stagnazione. Quello che nessuno sa, tuttavia, è come i mercati finanziari reagirebbero a un eventuale ulteriore peggioramento del nostro rapporto debito-Pil. Può darsi che stiano zitti e buoni, intimiditi dalla volontà di super-Mario di fare «qualsiasi cosa occorra» per proteggere l’eurozona. Ma può anche darsi che i mercati rialzino la testa, e qualcuno ci rimetta le piume. Anzi, in realtà qualcosa è già successo, anche se in modo invisibile, perché oscurato dalla discesa degli spread con la Germania. Dal 9 aprile di quest’anno i rendimenti dei titoli di stato decennali dei principali paesi dell’euro hanno cominciato a muoversi in modo difforme, ossia a divergere sempre più fra di loro: è lo stesso segnale che, nel 2011, precedette e annunciò la imminente crisi dell’euro. Ma quel che è più grave è che a questo segnale, che indica che i mercati stanno ricominciando a distinguere fra paesi affidabili e paesi inaffidabili, se ne accompagna un altro che riguarda specificamente l’Italia: a dispetto del miglioramento dello spread con la Germania, la nostra vulnerabilità relativa rispetto agli altri 4 Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è in costante aumento dal 2011, e nell’ultima settimana ha toccato il massimo storico. Tradotto in parole povere: tutti i paesi stanno beneficiando di tassi di interesse via via più bassi, ma nel cammino di generale avvicinamento alla virtuosa Germania noi siamo più lenti degli altri, perché i mercati si accorgono che non stiamo facendo le riforme necessarie per aumentare la nostra competitività. La conseguenza è molto semplice, ma terrificante: se ci fosse un’altra crisi finanziaria, noi saremmo più vulnerabili di Spagna e Irlanda. Ecco perché rallegrarsi degli spread bassi può essere molto fuorviante. E continuare a rimandare le scelte difficili, come finora hanno fatto un po’ tutti i governi, potrebbe rivelarsi catastrofico. Lo so: Cassandra dixit, direte voi. Ma a differenza di Cassandra non vedo nel futuro, e continuo a pensare che il futuro che verrà sarà esattamente quello che ci saremo meritati.

http://www3.lastampa.it/fileadmin/mobile/editoriali.php?articolo=7


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