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Venezuela: l’ultima carta di Maduro è il petrolio (e a Trump potrebbe interessare)

Con l’80% dell’export in mano alla Cina, Caracas punta a riconquistare le raffinerie USA. Il greggio pesante è l’unica carta rimasta sul tavolo di un negoziato difficile tra sanzioni e Realpolitik.

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Mentre Nicolas Maduro si esibisce in passi di danza durante le celebrazioni per la giornata dello studente a Miraflores, a migliaia di chilometri di distanza, a Washington, si sta giocando una partita molto meno festosa, ma decisamente più pragmatica. In uno scenario che mescola realpolitik e necessità energetiche, il presidente venezuelano sembra aver compreso una verità fondamentale: l’unica vera leva negoziale rimasta al suo regime per sopravvivere alle pressioni degli Stati Uniti non è l’ideologia, ma il greggio.

Siamo nel 2025, e la situazione è paradossale. Da un lato, l’amministrazione di Donald Trump ha appena designato formalmente il Cartel de los Soles venezuelano come organizzazione terroristica straniera, aumentando la pressione militare nei Caraibi. Dall’altro, la Casa Bianca ha lasciato intendere di essere aperta a colloqui. Perché questa apparente schizofrenia diplomatica? La risposta giace nel sottosuolo del bacino dell’Orinoco.

Il “Barile” come merce di scambio politica

La produzione petrolifera del Venezuela, pur essendo l’ombra di ciò che era negli anni ’90, si è stabilizzata quest’anno intorno a 900 mila – 1 milione di barili al giorno (bpd). Non siamo ai livelli gloriosi del passato, ma è una quantità sufficiente per muovere gli aghi della bilancia geopolitica, specialmente se si considera dove finisce questo petrolio.

Attualmente, i dati di navigazione ci dicono che tra giugno e ottobre oltre l’80% delle esportazioni venezuelane ha preso la via della Cina. Pechino è diventata il polmone finanziario di Caracas, assorbendo il greggio che l’Occidente ha sanzionato. Tuttavia, qui risiede l’opportunità per Trump e la leva per Maduro: quei carichi possono essere dirottati.

Gli analisti concordano su un punto: Maduro ha la flessibilità e l’incentivo per usare l’export di greggio come strumento chiave di contrattazione.

Thomas O’Donnell, analista energetico, ha centrato il punto: “Inviare più petrolio agli Stati Uniti e proteggere gli investimenti USA in Venezuela è qualcosa che Maduro può offrire facilmente”.

Perché agli USA serve il petrolio venezuelano?

A un lettore distratto potrebbe sembrare strano. Gli Stati Uniti non sono diventati il maggior produttore mondiale grazie allo shale oil? Sì, ma c’è un dettaglio tecnico fondamentale che spesso sfugge ai non addetti ai lavori: la qualità del greggio.

  • Gli USA producono: Prevalentemente petrolio “leggero” e “dolce” (basso contenuto di zolfo) dai bacini di scisto.

  • Le raffinerie USA (Golfo del Messico): Sono state costruite decenni fa per processare petrolio “pesante” e “acido” (alto contenuto di zolfo).

Le raffinerie del Golfo, per operare alla massima efficienza e margine, hanno bisogno di miscelare il greggio leggero domestico con quello pesante estero. Con le sanzioni al Venezuela e le difficoltà con altri fornitori, i raffinatori americani sono affamati di greggio pesante. Delcy Rodriguez, Ministro del Petrolio venezuelano, lo ha detto chiaramente (e con la solita retorica anti-imperialista): “Vogliono le riserve di petrolio e gas del Venezuela. Gratis, senza pagare”.

Al di là della propaganda, la realtà economica è che un accordo converrebbe a entrambi: Maduro ottiene legittimità e contanti, le compagnie USA ottengono la materia prima ideale per i loro impianti.

Dalla Cina agli Stati Uniti: un cambio di rotta possibile

Uno degli aspetti più interessanti emersi dai dati recenti è la struttura contrattuale di PDVSA (la compagnia petrolifera di stato venezuelana).

Quando gli USA hanno colpito il paese con le sanzioni nel 2019, la maggior parte dei contratti di fornitura a lungo termine è saltata. Da allora, PDVSA è stata costretta a vendere quasi tutto il suo petrolio sul mercato spot (a pronti), applicando forti sconti per attirare acquirenti disposti a rischiare le sanzioni (principalmente raffinerie indipendenti cinesi).

Questo svantaggio, ironicamente, ora diventa un vantaggio tattico.

Non essendo vincolata da rigidi accordi pluriennali, PDVSA può reindirizzare rapidamente i carichi. Se Washington offrisse un accordo politico o un alleggerimento delle sanzioni, le petroliere che oggi fanno rotta verso l’Asia potrebbero virare verso il Texas o l’Europa in tempi brevissimi.

Ecco una sintesi della situazione attuale dell’export venezuelano:

Destinazione PrevalenteQuota di Mercato (2025)Tipo di ContrattoPotenziale di Dirottamento
Cina> 80%Spot / Breve termineAlto
USAMinimo (via Chevron)Licenze specialiIn espansione
EuropaMarginaleSpotMedio

Le spedizioni verso la Cina sono aumentate drasticamente nella seconda metà del 2025 proprio a causa delle politiche USA che impedivano altre destinazioni. Ma come dimostrano i documenti interni di PDVSA visti da Reuters, c’è ampio margine per diversificare, se la politica lo permette.

Logo della compagnia petrolifera venezuelana PDVSA

Logo della compagnia petrolifera venezuelana PDVSA

Il nodo degli investimenti

Qui però l’analisi deve spostarsi dal piano commerciale a quello strutturale. Non basta dire “vendo agli USA”. Bisogna poter estrarre il petrolio in modo efficiente. E qui il Venezuela sconta anni di socialismo reale mal gestito, espropriazioni e mancati investimenti.

L’amministrazione Maduro, nonostante il paese possieda le più grandi riserve di greggio al mondo, ha fallito nel tentativo di allocare i campi petroliferi a compagnie energetiche esperte. Il modello contrattuale proposto da Caracas non offre garanzie sufficienti.

Il risultato? Hanno attirato solo piccoli investitori, spesso privi del know-how tecnico o della capacità finanziaria per gestire progetti complessi.

Per un rilancio serio dell’industria petrolifera venezuelana servono due cose che Maduro fatica a trovare:

  1. Fiducia giuridica: Le major occidentali ricordano ancora le espropriazioni dell’era Chavez.

  2. Capitali massicci (Capex): L’infrastruttura è vecchia, arrugginita e necessita di miliardi di dollari solo per tornare operativa a livelli decenti.

Anche l’opposizione venezuelana, che promette riforme liberali se dovesse mai prendere il potere, si troverebbe di fronte a una sfida titanica. Non si riaccende l’industria petrolifera premendo un interruttore; serve un piano di investimenti pubblici e privati di lungo respiro. Washington ha il coltello dalla parte del manico: i prezzi del petrolio sono stabili e bassi, togliendo a Maduro l’arma del “ricatto sui prezzi”. Tuttavia, la stabilità geopolitica dei Caraibi e la fame delle raffinerie USA potrebbero spingere Trump a concedere quelle licenze più flessibili che Caracas chiede disperatamente.

Tra Terrorismo e Affari

L’approccio dell’amministrazione Trump è, come spesso accade, transazionale. Da un lato si agita il bastone (la designazione di “terroristi” per il Cartel de los Soles, le operazioni militari imminenti), dall’altro si lascia socchiusa la porta del business. Washington ha bloccato per anni i pagamenti in contanti a PDVSA, ma la compagnia ha imparato a sopravvivere con gli swap (scambi petrolio-contro-carburante).

La partita si giocherà nelle prossime settimane. Se Maduro riuscirà a convincere Trump che il petrolio venezuelano è più utile nel Golfo del Messico che nei porti cinesi, potremmo assistere a uno dei più classici voltafaccia della realpolitik, magari accompagnato da concessioni politiche concordate. In caso contrario, il ballo di Maduro potrebbe essere l’ultimo, mentre l’infrastruttura del paese continua inesorabilmente a decadere.

In economia, come in geopolitica, non esistono vuoti: se gli USA non riempiranno le stive venezuelane, qualcun altro (Cina, Russia o attori ombra) continuerà a farlo, ma a condizioni che non porteranno mai il Venezuela fuori dalla sua crisi strutturale.

Impianto Chevron in venezuela

Domande e risposte

Perché agli Stati Uniti serve il petrolio venezuelano se hanno lo shale oil? È una questione di chimica e infrastrutture. Le raffinerie della Gulf Coast statunitense sono state progettate decenni fa per lavorare greggio “pesante” (denso e ricco di zolfo), tipico del Venezuela. Lo shale oil estratto in Texas è invece “leggero”. Per operare al massimo profitto, le raffinerie devono miscelare i due tipi. Senza il greggio venezuelano, gli USA devono importare varianti simili da altri paesi, spesso a costi maggiori o da rotte logisticamente meno convenienti.

Maduro può davvero interrompere le forniture alla Cina da un giorno all’altro? Sì, è tecnicamente possibile e commercialmente fattibile. A causa delle sanzioni USA, PDVSA (l’azienda di stato venezuelana) non ha potuto stipulare contratti a lungo termine con la Cina, ma vende quasi tutto sul mercato spot (a pronti) o tramite intermediari indipendenti. Questo significa che non ci sono vincoli contrattuali rigidi pluriennali: se Washington offrisse condizioni migliori (o licenze operative), Maduro potrebbe reindirizzare le petroliere verso gli USA quasi immediatamente.

La produzione petrolifera venezuelana tornerà presto ai livelli degli anni ’90? Assolutamente no, almeno non nel breve-medio periodo. Anche se le sanzioni venissero revocate domani, l’industria petrolifera venezuelana è strutturalmente compromessa. Anni di mancata manutenzione, espropriazioni e fuga di cervelli (ingegneri e tecnici) richiedono massicci investimenti di capitale (Capex) e tempo per essere riparati. Si parla di miliardi di dollari e anni di lavoro solo per recuperare una frazione della capacità produttiva che il paese aveva due decenni fa.

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