Europa
Uscire dall’euro rimanendo in UE è giuridicamente possibile?
In questo articolo voglio affrontare sotto il profilo squisitamente tecnico le implicazioni giuridiche di un’uscita dall’euro senza lasciare l’Unione Europea.
Le mie personali convinzioni le conoscete: l’UE è una dittatura finanziaria che comporta gravissime cessioni di sovranità, a prescindere dall’adesione all’UEM (artt. 3 e 140 tfue), e dunque va abbandonata, auspicabilmente spazzando via lei e la finanza che la conduce. Più chiaro di così non potrei essere.
Lo scopo però è andare oltre le convinzioni personali ed analizzare tecnicamente un’ipotesi di cui non ho mai dibattuto in precedenza, dimostrandovi, peraltro inconfutabilmente, che la mia personale opinione non inficia minimamente la mia capacità di analisi tecnica.
Dobbiamo partire con l’attenta lettura dell’art. 140 TFUE il quale dice cose assai chiare e soprattutto, letteralmente, prevede unicamente una linea di percorso: lo status di paese in deroga è propedeutico all’ingresso nell’UEM, benché ciò possa avvenire solo su successiva richiesta del membro stesso. O meglio, come vedremo, la richiesta, letteralmente, non è propriamente di entrare nell’UEM, ma di essere giudicati. Una sfumatura, forse sottile, ma che in realtà la dice lunga sulla ratio complessiva della norma e sulla triste fine che ha fatto la sovranità anche dei Paesi in deroga.
L’intera norma è dunque concepita unicamente affinché un Paese in deroga diventi membro della zona euro.
I trattati letteralmente non prevedono che dall’UEM si torni indietro, ma prevedono unicamente un’uscita unilaterale (ma negoziata nel comune interesse di tutti) di uno Stato dall’UE “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione” (art. 50 TUE).
L’esponente più illustre che ha teorizzato la possibilità del percorso inverso, ovvero di un Paese UEM che recede solo dall’Unione monetaria, è certamente Luciano Barra Caracciolo, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato.
Il grande giurista ha trovato la motivazione alla sua apertura nella Convenzione di Vienna raffrontata alla stregua del dato testuale degli artt. 139 e 140 tfue:
“dato che la procedura di ammissione all’euro configura l’ammissione medesima come atto ampliativo, la disciplina contenuta in tali norme richiede la manifestazione di consenso dello Stato considerato in ogni sua fase procedurale. Questo consenso, quindi, è un elemento costitutivo indispensabile dell’ammissione e potrà essere ritirato in qualsiasi momento in applicazione del principio della insopprimibile libertà del consenso nel diritto internazionale”, ed ancora “non esiste un vincolo irreversibile e non è configurato come tale dalle norme se lette in buona fede, intesa come vincolo normativo di jus cogens”.
La tesi di Caracciolo è suggestiva, ben argomentata, ed ampiamente supportabile. Tuttavia resta, come lui stesso riconosce, oggetto di interpretazione. Interpretazione, per di più, da fare secondo buona fede. Ebbene tutti noi sappiamo quanta poca buona fede vi sia nell’Unione Europea. Davvero vogliamo credere che interpreterebbero i trattati in una direzione che comporta la riaffermazione della sovranità di uno dei membri?
A mio avviso, se l’Italia avvisasse i Paesi UE di voler uscire dall’euro riceverebbe invece un’unica e ben diversa risposta (rammentiamo che Berlusconi per aver solo ventilato questa ipotesi è stato destituito immediatamente).
Il no sarebbe eclatante ed altisonante, perché non interpreterebbero affatto i trattati secondo buona fede, ma letteralmente. In mancanza di una procedura che consenta espressamente l’uscita dall’eurozona rimanendo in UE, gli altri Stati si opporrebbero, con argomentazioni giuridiche, ad ogni diverso accordo.
Leggiamo l’art. 139 tfue per comprendere perché, l’interpretazione secondo buona fede dei trattati, non sarà quella propria delle istituzioni europee:
“Gli Stati membri riguardo ai quali il Consiglio non ha deciso che soddisfano alle condizioni necessarie all’adozione dell’euro sono appresso denominati “Stati membri con deroga”.
Non sono gli Stati, secondo la lettera dei trattati, ad aver sovranamente deciso di entrare in UE, ma è l’UE che ha deciso chi promuovere. Forse non è avvenuto propriamente così, ma la norma inopinatamente ratificata, anche dal nostro Parlamento, è questa.
Ed infatti il Regno Unito, per il suo particolare status, ha ottenuto un accordo speciale inserito nei protocolli allegati al trattato. Con la Gran Bretagna non si è creato un precedente, perché è il protocollo n. 15 ad aver codificato una situazione diversa da ogni altra nazione in deroga:
“Riconoscendo che il Regno Unito non deve essere obbligato (n.d.s. – ma solo lui però!) né deve impegnarsi ad adottare l’euro senza che il suo governo e il suo parlamento abbiano preso una decisione in merito”, l’art. 1 dispone: “A meno che il Regno Unito notifichi al Consiglio che intende adottare l’euro, esso non ha nessun obbligo di farlo”.
In politica monetaria, art. 3: “Il Regno Unito mantiene i suoi poteri nel settore della politica monetaria conformemente alla legislazione nazionale” ed infatti ad esso non si applicano gran parte delle norme sullo statuto della banca centrale. Ed anche in materia di disavanzo c’è solo uno sforzo generico a non averne uno eccessivo (art. 5).
In claris non fit interpretatio.
Il Regno Unito non è stato obbligato e tale sua condizione è stata negoziata separatamente ad ogni altro Stato. Per gli altri Paesi in deroga invece la realtà è molto diversa, per loro si applica l’art. 140 tfue.
Ogni sovranità è stata già ceduta, rivendicarla significa violare i trattati, cosa che per me va benissimo, ma, se il tema è discutere sulla fattibilità giuridica dell’azione (che nulla ha a che vedere con quella materiale! Le leggi si possono violare!), la conclusione non può che essere negativa.
L’art. 140 tfue testualmente recita:
“Almeno una volta ogni due anni o a richiesta di uno Stato membro con deroga, la Commissione e la Banca centrale europea riferiscono al Consiglio sui progressi compiuti dagli Stati membri con deroga nell’adempimento degli obblighi relativi alla realizzazione dell’Unione economica e monetaria. Dette relazioni comprendono un esame della compatibilità tra la legislazione nazionale di ciascuno di tali Stati membri, incluso lo statuto della sua banca centrale, da un lato, e gli articoli 130 e 131 nonché lo statuto del SEBC e della BCE, dall’altro”.
Lo status giuridico per chi è semplicemente nell’UE, salvo negoziazioni particolari, come quelle fatte dalla Gran Bretagna (oggi ripercorribili solo invocando l’art. 50 tue e non certo recedendo dall’UEM), non lascia alcuno spazio. Il Paese in deroga deve progredire ed armonizzarsi, deve rispettare la teoria della banca centrale indipendente, deve rispettare il divieto di una banca che sia prestatrice di ultima istanza. Anche se oggi per tali violazioni mancano sanzioni effettive, è facile ipotizzare che l’unica reazione UE sarebbe proprio quella di introdurle.
La norma poi prosegue imponendo ai Paesi in deroga anche tutto il peggio del repertorio dell’eurocrazia:
“Le relazioni devono anche esaminare la realizzazione di un alto grado di sostenibile convergenza con riferimento al rispetto dei seguenti criteri da parte di ciascuno Stato membro:
-il raggiungimento di un alto grado di stabilità dei prezzi (n.d.s. – se questo poi crea disoccupazione pazienza…); questo risulterà da un tasso d’inflazione prossimo a quello dei tre Stati membri, al massimo, che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi,
-la sostenibilità della situazione della finanza pubblica; questa risulterà dal conseguimento di una situazione di bilancio pubblico non caratterizzata da un disavanzo eccessivo secondo la definizione di cui all’articolo 126, paragrafo 6 (n.d.s. – ergo sarà la Commissione Europea a decidere, formulando l’apposita proposta al Consiglio!)
–il rispetto dei margini normali di fluttuazione previsti dal meccanismo di cambio del Sistema monetario europeo per almeno due anni, SENZA SVALUTAZIONI NEI CONFRONTI DELL’EURO,
-i livelli dei tassi di interesse a lungo termine che riflettano la stabilità della convergenza raggiunta dallo Stato membro con deroga e della sua partecipazione al meccanismo di cambio.
La norma poi prosegue evidenziando ancor di più la direzione univoca che porta dall’UE all’UEM, e l’assenza di percorsi inversi che abbiano legalità senza il ricorso alla procedura dell’art. 50 tue:
“2. Previa consultazione del Parlamento europeo e dopo dibattito in seno al Consiglio europeo, il Consiglio, su proposta della Commissione, decide quali Stati membri con deroga soddisfano alle condizioni necessarie sulla base dei criteri di cui di cui al paragrafo 1, e abolisce le deroghe degli Stati membri in questione. (omissis…)
3. Se si decide, conformemente alla procedura di cui al paragrafo 2, di abolire una deroga, il Consiglio, deliberando all’unanimità degli Stati membri la cui moneta è l’euro e dello Stato membro in questione, su proposta della Commissione e previa consultazione della Banca centrale europea, fissa irrevocabilmente il tasso al quale l’euro subentra alla moneta dello Stato membro in questione e prende le altre misure necessarie per l’introduzione dell’euro come moneta unica nello Stato membro interessato”.
Evidente dunque che non è lo Stato in deroga a decidere se entrare nell’euro, ma sono le istituzioni europee a promuoverlo, se e quando, farà i compiti a casa, che restano comunque un obbligo giuridico e non una mera scelta. Ed ancora una volta è fondamentale il ruolo della Commissione Europea, che è l’unica a poter proporre l’ammissione di uno Stato membro (Lo Stato invece può solo, per dirla semplice, chiedere di essere iscritto all’esame).
Insomma, non a caso la Gran Bretagna, più attenta di noi alla sovranità, ha fatto espressamente riconoscere che, per lei, questi obblighi non valgono.
Per tutti gli altri invece, buona cessione di sovranità!
Dunque rimanere in UE può essere una scelta, ma non può in nessun caso essere considerata possibile o lecita giuridicamente. L’interpretazione dei trattati secondo buona fede è suggestiva e condivisibile, ma presupporrebbe che l’UE non fosse una dittatura e che le decisioni potessero seguire il diritto secondo il noto brocardo: “la legge è uguale per tutti”. L’UE invece vive solo sui rapporti di forza, la legge qui non è più uguale per tutti.
Ergo non si ha alcuna certezza di avere cooperazione dalle altre nazioni. Esse sarebbero invece obbligate a cooperare, almeno formalmente, se si scegliesse la procedura di cui all’art. 50 tue contestualmente all’uscita dall’euro, procedura che toglierebbe al nostro nemico ogni possibile strumento di enforcement legale.
E date le circostanze spuntare le armi del nemico non sarebbe una cattiva idea…
Se si vuole sperare nello status della Gran Bretagna, ammesso e non concesso che questo sia un successo, l’unico passaggio possibile è l’art. 50 tue da azionare contestualmente all’uscita unilaterale e repentina dall’euro. Se invece si vuole salutare la compagnia subito lasciando l’UE oltre che l’euro, è assolutamente perfetto l’argomento di Luciano Barra Caracciolo. Ed è questa la linea che ovviamente prediligo.
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