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Unione monetaria, l’eredità che Draghi deve lasciare di Giorgio La Malfa.

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Nella conferenza stampa che, come di consueto, segue la riunione mensile del Consiglio della Bce, Mario Draghi ha dichiarato l’altro ieri che nulla cambia nella politica monetaria. La Banca centrale europea non modifica quindi la sua impostazione né in senso più restrittivo, come chiedono insistentemente alcuni Paesi fra cui la Germania, né in senso più espansivo, come potrebbe essere suggerito dal fatto che vi sono segni molto consistenti – come ha riconosciuto lo stesso Draghi – di un raffreddamento della congiuntura in tutta l’area dell’euro.

Una conferenza stampa piuttosto noiosa – sembra abbia commentato qualcuno dei giornalisti presenti. In realtà è probabile che nel Consiglio della Bce la discussione sia stata ani- mata dal momento che i segnali che vengono dall’economia portano a conclusioni che vanno in direzioni diverse: i tedeschi probabilmente continuano a insistere per rialzare i tassi e anche a tenere alto il cambio fratturo e dollaro.

I segnali congiunturali negativi giustificherebbero invece, una politica economica di sostegno dell’economia e un tasso di cambio fra euro e dollaro che aiuti le esportazioni. Sono linee divergenti fra le quali è difficile me-
diare.
Ma qui si tocca il vero problema. Forse
ha ragione Draghi nel ritenere che in questo momento non vi sono elementi certi per modificare la politica monetaria. Però vi sono già – e da tempo – elementi sufficienti per un giudizio complessivo sulla efficacia della politica monetaria. La Bce ha avviato dal 2014 una politica di forte espansione monetaria con l’obiettivo di riportare la crescita annuale dei prezzi nell’area dell’euro «sotto, ma vicino al 2% per anno».

Non era detto esplicitamente, ma era implicito in questa analisi che i prezzi sarebbero tornati a crescere quando vi fosse stata una ripresa economica sufficientemente forte e solida. A distanza di tre anni quello che si può dire è che i prezzi non hanno ancora raggiunto il traguardo che era stato fissato, il che vuol dire che la ripresa è stata inferiore al previsto e soprattutto alle necessità di riassorbire la disoccupazione. Su questa situazione ora viene anche il probabile raffreddamento della congiuntura che è probabile ritardo ulteriormente la crescita dei prezzi verso l’obiettivo del 2%.

Qual è la conclusione? È che la politica monetaria non ha l’efficacia che le era stata attribuita. Naturalmente questo non vuol dire che – come dicono i tedeschi – è stato sbagliato il quantitative easing. Al contrario, esso è stato indispensabile e se non vi fosse stato, tutta l’area dell’euro starebbe peggio. Ma – questa è la conclusione – la politica monetaria da sola non basta. E il modo di completarla non è, come
ha insistentemente chiesto l’Europa in questi anni, la riforma del mercato del lavoro. Questa vi è stata, per esempio in Italia, e l’esito è praticamente nullo.

In realtà si è sperimentata ampiamente la politica economica che le istituzioni europee hanno predicato e gli esiti sono stati modesti. Il binomio dei conservatori: rigore fiscale e riforme del lavoro è stato ampiamente sperimentato e non ha dato i risultati voluti.

Ieri Draghi ha ripetuto che l’Unione monetaria europea è incompleta e che questo comporta una sua debolezza, ma il suo riferimento è all’Unione Bancaria, che effettivamente è incompleta per il rifiuto tedesco di immaginare strumenti europei di sostegno nei casi di crisi bancarie. Ma la vera incompletezza della politica economica europea e dell’Unione monetaria non è questa. L’incompletezza riguarda gli strumenti macroeconomici. Negli ambienti europei, a Bruxelles, come a Francoforte, si continua a ignorare l’altro strumento di politica economica che può accompagnare la politica monetaria che è la politica di bilancio. Su questo punto Draghi ripete che bisogna «consolidare» i miglioramenti della finanza pubblica. Ma se la congiuntura peggiora e se la politica monetaria è inefficace, quale può essere se non lo stimolo fiscale il modo per sostenere l’economia?

Tradizionalmente, prima che nascesse
l’Unione monetaria europea e prima che le vecchie idee prekeynesiane si reimpadronissero del mondo, si sapeva che gli Stati avevano tre strumenti di politica economica a disposizione: la politica monetaria, la politica di bilancio e il tasso di cam- bio. L’Ume è stata costruita sul presupposto che da tre strumenti si passasse a uno: il cambio non può essere modificato, il bilancio pubblico va sterilizzato, resta la politica monetaria. Ma se essa, come si è vi- sto, è solo parzialmente efficace nel senso che allargando le maglie si evita il peggio, ma non si riesce a sostenere davvero l’economia, che si fa? Si abbandona il campo e si accetta come inevitabile la disoccupazione? Si abdica cioè alla responsabilità di governare i fatti economici?

Questa è la vera riflessione che Draghi farebbe bene ad avviare se volesse lasciare un’eredità importante del suo mandato al vertice della Bce. Ma ovviamente è una riflessione che richiederebbe di sfidare le opinioni dominanti. Forse Draghi pensa di avere sufficientemente ben meritato fronteggiando e sconfiggendo la ver- sione estrema del rigore tedesco. Questo è vero. Ma uno Stato o Unione monetaria che non persegua e non garantisca la pie- na occupazione ha i piedi di argilla di fronte al malcontento che cresce in tutti i paesi europei. Le recenti elezioni in molti paesi dovrebbero averlo dimostrato a sufficienza.

Giorgio La Malfa, Il Mattino, 28.4.18


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