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UN’IDEA CHE PUO’ DIVENTARE UN PROGETTO. IL PIANO ANTISPREAD (di Fabio Dragoni ed Antonio Maria Rinaldi)

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Pubblicato su LA VERITA’ (12 agosto 2018)

Se rispondessero al vero le indiscrezioni di una previsione di attacchi speculativi sui nostri titoli di Stato confidata ai più stretti collaboratori da parte del Sotto Segretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, la messa a punto di un piano anti spread -un vero e proprio Piano B- sarebbe senz’altro necessaria o quanto meno opportuna. Un Paese che abbia una propria Banca Centrale non avrebbe infatti da temere attacchi speculativi sui titoli emessi in valuta domestica potendo acquistarne tutte le quantità desiderate. La Banca del Giappone, ad esempio, detiene quasi il 42% del debito pubblico totale superiore al 230% del PIL.

Ma non avendo l’Italia una sua Banca Centrale e trovandosi nella non piacevole posizione di emettere debito in una valuta sostanzialmente assimilabile ad una straniera (l’euro) qualche cautela in più è d’obbligo.

Soprattutto in queste ore di turbolenza sui mercati finanziari dovuti al caso Turchia la quale dal canto suo ci insegna prima di tutto che l’entità del debito pubblico in sé nulla ci dice in merito alla capacità di prevenire crisi finanziarie dal momento che il debito di Ankara è inferiore al 30% del PIL. Mentre invece ciò che più conta è il debito in valuta estera (per definizione “non controllabile” in quanto per l’appunto straniera) che in cinque anni è aumentato dal 38% ad oltre il 50% del PIL in una situazione di perenne deficit della bilancia commerciale con la Turchia costretta a domandare valuta estera per sostenere un import cronicamente superiore all’export.

Se siamo quindi di fronte al rischio una possibile guerra servono alleati. Almeno due: Donald Trump da una parte ed i nostri risparmiatori dall’altro.

Il Governo di Washington ha da tempo messo la Germania nella lista dei paesi “manipolatori del cambio”. Il surplus commerciale di Berlino –negli ultimi dieci anni mediamente pari a 250 miliardi di dollari e quindi addirittura superiore a quello di Pechino- è ciò che ha spinto la Casa Bianca a muovere la sua guerra dei dazi contro l’Europa in generale e la Germania in particolare. L’euro è di fatto un marco svalutato per Berlino grazie alla media fra i valori dei suoi fondamentali macroeconomici mescolati con le debolezze dei paesi “mediterranei”. Oggi servono circa 1,15 dollari per acquistare 1 euro. E’ ragionevole dedurre che qualora la Germania avesse il marco, il suo prezzo in termini di dollari potrebbe rivalutarsi di un buon 20%-30%. Assestandosi quindi ad 1,38-1,50 dollari. Che in soldoni significano che per il portafoglio di un consumatore americano una BMW da 35.000 euro costerebbe fra i 48.000 ed i 53.000 dollari invece degli attuali 40.000 circa. Ecco che vista dalla prospettiva di Washington, la dissoluzione dell’euro -che oggi assicura alla Germania indiscutibili vantaggi commerciali- potrebbe addirittura essere un buon affare. Molte le ricostruzioni giornalistiche che hanno raccontato di un intervento pesante nel rastrellare titoli di stato italiani nei giorni di turbolenza sui mercati durante la nascita del governo giallo-verde da parte di investitori statunitensi. Bridgewater, Blackrock, PIMCO, AQR ed altre case di investimento potrebbero però in futuro tornare ad acquistarne altri se necessario. Questa sembra infatti essere una delle richieste formulate a Trump dal Premier Conte qualora riprendesse la corsa alle vendite sui nostri titoli. Washington a sua volta potrebbe invece vedere di buon occhio una maggior libertà di manovra del nostro esecutivo in chiave soprattutto antitedesca. Ma cosa rischierebbero gli investitori americani qualora in estrema ratio deflagrasse la zona euro con conseguente ridenominazione dei titoli di stato in portafoglio da euro a nuove lire? E’ da escludere una significativa svalutazione, dal momento che il nostro surplus commerciale con gli Stati Uniti ammonta ad oggi a circa 25 miliardi di euro contro i quasi 10 del 2011. Gli USA stanno cioè domandando ed acquistando euro contro dollari per acquistare i nostri prodotti. Difficilmente pertanto la nuova lira si svaluterebbe rispetto al dollaro considerando che questo potrebbe darci un ulteriore vantaggio commerciale. E’ questo si che è un regalo che Trump sarebbe difficilmente disponibile ad offrirci. Gli investitori americani che acquistassero titoli nostrani correrebbero quindi un rischio di ridenominazione o cambio molto limitato. E non essendoci un rischio default in caso di ritorno alla nuova lira dovuto alla garanzia implicita di una banca centrale nazionale, gli investitori americani dovrebbero quindi misurarsi soprattutto col rischio di tasso. Come normalmente avviene acquistando obbligazioni qualora l’aumento dei rendimenti del mercato provochi una fisiologica diminuzione del prezzo. Insomma soccorrere Roma può essere per Washington la cosa giusta da fare nel momento giusto senza che chi metta mano al portafoglio corra più rischi del dovuto. Oggi gli investitori esteri hanno in portafoglio circa 720 miliardi di nostro debito pubblico ed è quindi nel nostro interesse che il peso dei compratori a stelle e strisce aumenti rispetto ai concorrenti europei. Ma accanto a Trump il nostro esecutivo potrebbe facilmente guardare anche ad altri importanti alleati; i nostri risparmiatori che con circa 3.400 miliardi di euro in ricchezza finanziaria netta detengono direttamente poco più di 100 miliardi del nostro debito pubblico. Cui vanno ovviamente aggiunte le loro quote di fondi comuni che hanno in portafoglio titoli pubblici. Potrebbe essere interessante prevedere, e questa è la seconda mossa, una completa esenzione fiscale sui guadagni in conto interesse e capitale, attualmente prevista nell’entità del 12,50%, per i possessori residenti che detengano i titoli per almeno 36-48 mesi, equiparandoli quindi ai non residenti che già godono di questo vantaggio fiscale indipendentemente dalla durata dell’investimento. Questo determinerebbe una maggior interesse nell’acquisto dei titoli da parte degli investitori domestici attratti da un più elevato rendimento netto, ma anche una maggiore stabilità per l’ovvia convenienza nel conservarli in portafoglio per godere l’esenzione fiscale. Avere creditori cassettisti mitigherà non poco infatti la volatilità dei nostri bond dando al Governo la necessaria libertà e flessibilità di manovra per attuare vere politiche anticicliche. Gli strumenti per affrontare le tempeste ci sono, basta organizzarsi in tempo come si conviene alle navi che si accingono ad affrontare i pericoli del mare aperto.


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