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UN SECOLO BUIO: IL XX

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Un pessimista capace di senso critico ad un certo momento può anche essere stanco del proprio pessimismo. Forse hanno ragione gli altri. Non può andare sempre male, non può andare sempre peggio. È contro il buon senso. Anzi, è contro la statistica: se le cose fossero andate così, oggi dovremmo vivere in condizioni più precarie che all’età della pietra.

Purtroppo questo ragionamento, valido sulla scala dell’umanità, non è valido sulla scala del singolo. Durante gli ultimi decenni dell’Impero Romano d’Occidente le persone riflessive avranno potuto immaginare che un giorno da quel disastro sarebbero nate nuove civiltà, che gli stessi barbari avrebbero forse sorpassato gli eredi dei romani, ma sarebbero state fantasie: l’esperienza della loro intera vita era quella della paura, della tragedia, della fine.

Il pessimista deve chiedersi in quale epoca vive. Noi beneficiamo di uno straordinario progresso scientifico e tecnologico che ci fa vivere più comodamente e più a lungo che in qualunque altro periodo della storia. Non si smetterebbe mai di enumerare i vantaggi che ci offrono le macchine e l’economia contemporanea. Purtroppo, una volta riconosciuto che non abbiamo fame, che il riscaldamento va a meraviglia e che possiamo avere immagini e notizie da tutto il mondo, ci accorgiamo che disponiamo soltanto di questo. L’epoca più ricca dal punto di vista del benessere, è anche una delle più povere intellettualmente. Nel Seicento, nel Settecento e nell’Ottocento gli uomini si sono trovati ad essere contemporanei di una tale quantità di geni, da rendere i giganti un fenomeno corrente. Se si leggono le vite di questi eroi del pensiero o dell’arte si rimane impressionati nel vedere quanti di loro si conoscevano, erano in competizione, si stimavano o erano addirittura amici. Sembrava naturale che dovunque ci fossero grandi musicisti, grandi pittori, grandi letterati, grandi filosofi.

Ma ciò che non vede il singolo lo vede lo storico. Questa lussureggiante serra tropicale si è ad un certo momento inaridita. È avvenuto con la fine del XIX secolo. Da quel momento è come se sull’Occidente culturale si fosse abbattuta una maledizione. È morta la grande musica: prova ne sia che, se vogliono avere successo, le radio o i teatri in cui si tengono concerti devono costantemente rifarsi ad un repertorio anteriore al Ventesimo Secolo. Il teatro boccheggia: dopo avere tentato strade che si sono rivelate altrettanti vicoli ciechi, ha soltanto autori di seconda categoria. La letteratura ha una folla di nomi, in tutte le lingue, ma non un solo gigante che sia qualcosa di più di una moda. In tutte le direzioni, è come se fosse venuta meno la creatività. In musica il massimo risultato è il jazz, cioè un salto nel lontano passato, prima che si fosse arrivati al sinfonismo. Perfino la maggior parte delle più belle canzoni risale ad anni molto lontani. La fede in un indefinito, interminabile fiorire si è rivelata per quello che era: un’illusione. I pregiudizi ottimistici sono contraddetti dalla realtà: a volte l’umanità va avanti, a volte torna indietro.

Il caso di alcuni Paesi europei è emblematico da un punto di vista che si sarebbe potuto sperare rimanesse positivo, almeno quello: l’economia. Un secolo e mezzo fa Adam Smith ragionava più o meno come una massaia, e creava l’economia liberale. In seguito ci si è riempiti la testa di teorie astruse, si è creduto di poter guidare i mercati, di trasformare lo Stato in una sorta di padre amorevole della collettività, tanto da avere tutti il massimo facendo il minimo. O magari niente. Il risultato – per esempio in Italia – è stato quello di mettere in ginocchio un Paese che, per brillantezza intellettuale e perfino imprenditoriale, avrebbe potuto essere fra i primi al mondo. La nazione è stata resa meschina, predicando l’odio e l’invidia. “Magnanimo” è divenuto un aggettivo perento. I sindacati hanno convinto tutti che la paga è un diritto e la prestazione un optional. Si sono caricate le generazioni successive di un debito che oggi le annichilisce e che domani potrebbe portare ad una tragedia economica nazionale senza precedenti. Una tragedia di cui gli italiani sarebbero le vittime senza essere i responsabili.

Questa sorta di malattia internazionale dell’Occidente – la mancanza di buon senso – si manifesta anche in altri campi. Non si ha più il coraggio di difendere la propria civiltà, la propria religione e la propria nazione, per esempio contro l’arroganza musulmana. Si considera scandaloso far di conto, avere armi per difendersi, imporre la legge ai facinorosi, e perfino dare dell’ignorante a un alunno asino. Il cervello occidentale è divenuto incapace di ragionare e si lascia andare ai pregiudizi della political correctness.

L’umanità è stata grande in passato per qualche secolo e probabilmente lo sarà ancora in futuro, ma per l’età contemporanea non c’è che da rassegnarsi.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

30 novembre 2013


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