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Un libro da leggere: “IL POPULISMO NON ESISTE” di Martino Cervo

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È possibile parlare del populismo senza farsi prendere dalla tentazione di demonizzarlo come un rischio per la democrazia o di esaltarlo come l’essenza della stessa? Martino Cervo, vicedirettore de “La Verità”, ci ha provato con un pamphlet agile, e profondo al contempo, dal provocatorio titolo “Il populismo non esiste”.

Ci riferiamo a un saggio di un centinaio di pagine, godibile nello stile e denso di contenuti, il cui titolo rischia di far arrabbiare sia chi si considera populista sia chi il populismo non lo sopporta. La scoperta che il populismo non esiste, come pare suggerire Cervo, potrebbe mandare in frantumi le certezze e dell’uno e dell’altro.  Ma rassicuriamo entrambi perché, ovviamente, il titolo dell’opera è volutamente provocatorio e paradossale e sottende un messaggio sintetizzabile come segue. Non esiste il populismo quale ci viene raccontato dalla vulgata dei media mainstream, da quelli della “stampa per bene” e del politicamente corretto: e cioè una specie di escrescenza irrazionale della  democrazia liberale. In base a questa errata chiave di lettura, esso sarebbe un fenomeno non solo totalmente negativo e pericoloso, ma anche “inspiegabile” secondo i canoni classici del pensiero moderato e liberaldemocratico. Esiste invece una reazione di massa, diciamo pure popolare, alle politiche portate avanti, negli ultimi decenni dalle cosiddette elites. Una reazione perfettamente spiegabile – e il merito principale del lavoro qui recensito è che la spiega benissimo – alla quale è stato affibbiato, onde delegittimarla ab origine, la spregiativa qualifica di “populismo”.

 

La reazione popolare, e “populista”, di cui ci parla Cervo – lungi dall’essere una malattia episodica e passeggera della democrazia liberale – è l’effetto inevitabile di una gestione elitaria della cosa pubblica; una gestione sempre più  “distante” dal comune sentire, dai bisogni elementari, dalle esigenze di protezione e di partecipazione e, infine, dall’ordinario buon senso di ampie fasce di cittadini. A questo proposito, l’autore si interroga su una convinzione diffusa, soprattutto tra chi detesta il populismo: e cioè che l’elettore populista, o sovranista che dir si voglia, sia necessariamente refrattario ai valori della democrazia.  Ebbene, una ricerca del Pew Research Center, richiamata da Cervo, sul tasso di “democraticità” degli elettori  di movimenti populisti nei vari paesi europei (tra cui Lega e 5 Stelle, per quanto concerne l’Italia) dimostra l’esatto contrario. Un’altissima percentuale di costoro considera la democrazia alla stregua di un valore non negoziabile. Il che induce il lettore a chiedersi: sono i populisti ad essere anti-democratici a propria insaputa, e contro le proprie dichiarate intenzioni, o è l’establishment a dipingerli intenzionalmente come tali per squalificarli dal gioco e dal dibattito?

 

Il libro di Martino propende per la seconda ipotesi e lo fa richiamandosi a un’opera di Julien Benda del 1927 (“Il tradimento dei chierici”). Benda sottolineava proprio una irresistibile  tendenza delle classi dominanti e dell’intellighenzia che le rappresenta “ideologicamente” (nel senso marxiano del termine): quella  di assecondare una deriva  paradossalmente anti-democratica, nonché conservatrice dello status quo. E ciò proprio nel momento in cui esse rivendicano una sorta di diritto esclusivo a fregiarsi della qualifica di “democratiche”.

È come se le elites pretendessero esse sole di sapere, e di capire, dall’alto di una non discutibile “competenza”, qual è il “bene” delle masse. Conseguentemente, le masse sono democratiche se votano secondo i desiderata delle elites, ma diventano immediatamente una canaglia populista laddove maturano obbiettivi politici discordanti. Uno strepitoso aforisma di Bertolt Brecht sintetizza il concetto: “Il Comitato Centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un  nuovo popolo”.

Da questi presupposti nasce anche un pensiero sempre più diffuso nell’odierna area dell’intellighenzia progressista, perbenista e allineata. Ci riferiamo alla singolare idea per cui, dopotutto, non è così scontato – ed evidentemente neppure così “democratico” – che tutti debbano davvero votare. Magari si può cominciare a pensare a un diritto di voto selettivo, da concedersi cioè in base al livello culturale e alla preparazione specifica del singolo elettore. Insomma, parliamo della diabolica tentazione di una “patente per votare”. Già il pensatore liberale e liberista per antonomasia John Stuart Mill – ci rammenta Cervo  – aveva ipotizzato un voto “più pesante” a beneficio delle classi più elevate della società.

Ovviamente, questa linea confligge in modo netto sia con la storia della democrazia sia con le leggi fondamentali di molti Stati moderni, tra cui il nostro. La democrazia nasce nell’Atene di Clistene come reazione alla timocrazia di Solone. Ma essa è fin da principio un modello imperfetto dove il diritto di dibattere, votare, scegliere (o sorteggiare) chi governa è limitato a un selezionato numero di cittadini maschi e liberi. La progressiva ed esponenziale estensione della partecipazione popolare negli stati europei risale al Novecento quando il diritto di voto viene via via conquistato da fasce sempre più ampie di popolazione (compresi i ceti più bassi e meno “studiati” e le donne) che, per molto tempo, ne erano state escluse. Quanto alla nostra Costituzione, l’articolo 48 recita: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è un dovere civico. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”.

Ergo, stiamo parlando di una storia “progressiva” e di una Costituzione notoriamente “progressista” di cui tutti i politici sinceramente democratici, quelli di sinistra in primis,  oggi dovrebbero andare fieri. E invece sono proprio i politici e gli intellettuali di sinistra a farsi interpreti di un’idea pericolosamente regressiva: quella secondo cui solo l’establishment, in quanto competente, “sa” e “capisce” ciò che è bene per il popolo, per le masse.

È evidente, ci mette in guardia Martino, che ciò comporta un problema di compatibilità con le regole democratiche del gioco. Se solo “loro” sanno come si fanno le cose “per bene”, che senso ha votare? E come mai essi non si rendono conto che questo tipo di approccio è intrinsecamente incompatibile con l’idea stessa di democrazia dove, in teoria, si confrontano  idee diverse e poi la maggioranza vince, la minoranza perde e chi perde rispetta la decisione di chi vince? Chi decide cosa è giusto se la volontà della maggioranza (beota) non va più bene?

Forse, ci provoca il libro, il vero problema non sono le reazioni “populiste” al tradimento degli intellettuali. Il vero problema è l’insopportabile alterigia con cui gli intellettuali giustificano e legittimano l’attuale modello di politica come l’unico possibile. Questa tesi è patrocinata da Ivan Krastev secondo il quale per le elites il successo è “un premio al talento che le legittima alla governance del mondo”.

Sia come sia, mai come oggi suona attuale una frase di George Orwell richiamata da Cervo nel suo lavoro: “Gli intellettuali hanno una tendenza totalitaria più marcata della gente comune”. Lo prova un recente appello pseudo-marxiano (diffuso via web) dall’ampolloso incipit “Intellettuali di tutto il mondo unitevi”. Leggerlo per credere. Forse c’è bisogno proprio di una nuova classe intellettuale che intercetti i bisogni e le speranze dei “dimenticati” della globalizzazione.

Di certo, gli intellettuali (anche e soprattutto quelli cosiddetti progressisti) hanno, oggettivamente, favorito il consolidarsi dell’attuale sistema neoliberista e ordoliberista, assecondandolo per mere ragioni di bottega: le loro poltrone e le loro rendite di posizione sono legate, a doppia mandata, a quel format. A questo punto, la domanda cruciale diventa: è  ipotizzabile, in queste condizioni, la nascita di un nuovo ceto intellettuale capace di pensare in modo diverso e di proporre modelli differenti di convivenza civile e di organizzazione politica? Modelli che non siano inquinati dalla logica oligarchica di una riduzione dei diritti politici finalizzata a favorire la dittatura delle “intelligenze competenti”?

La risposta rischia di essere intrisa di sconsolante pessimismo. Siamo in presenza non solo di una dittatura dei competenti, ma di una giustificazione intellettuale della disuguaglianza e dell’asservimento. Padoa Schioppa parlava della necessità, per le masse, di riscoprire “la durezza del vivere”. È come se l’ultra-capitalismo della fine del secolo scorso e dell’inizio del nuovo millennio non avesse solo trionfato sulla secolare tendenza contraria del genere umano ad escogitare fuoriuscite dal medesimo o, quantomeno, limitazioni del medesimo. Esso ha anche prodotto una formidabile macchina del consenso ed ha arruolato, come sacerdoti del suo Verbo,  persino i chierici un tempo impegnati nell’analisi critica delle sue storte dinamiche.

Ma c’è anche un problema di valori. In effetti, sono morti e sepolti gli antichi ideali metastorici e trascendenti (di Chiesa e di Partito) che orientavano le masse con i loro principii e restituivano una cornice di senso a un mondo altrimenti dominato dalla mera logica del mercato e della libera circolazione delle merci. Oggi ci sono rimaste soltanto, oltre a merci e mercato, la “tecnica” e la “competenza dei tecnici” con la loro ossessione compulsiva per la crescita, per il PIL, e per il contenimento del deficit e del debito

L’odierna idolatria della tecnica, della competenza, del “saper fare” occulta, purtroppo, una elementare verità: la tecnica non può che essere comunque al servizio di qualcuno. Ed è evidente che questo qualcuno non è più Dio, non è più il Popolo o il Proletariato, ma il Detentore Transnazionale della Ricchezza (le famose elite globali). Stiamo arrivando al punto in cui la stessa idea di democrazia diventa obsoleta. Tanto che si è pensato addirittura alla sostituzione dei politici con i robot e se ne è parlato, ci informa l’autore, persino sull’Economist nel 2018. Il che ci ricorda il “pilota automatico” di cui parla un grande giurista, Giuseppe Guarino il quale, nel suo “Saggio di verità sull’euro”, ha denunciato il colpo di stato, perpetrato con fraudolenta astuzia, costituito da un regolamento europeo  antesignano del fiscal compact: un pilota automatico rappresentato dal mero rispetto di parametri ottusi e ossessivi e dal culto laico dei “conti in ordine”.

In tutto questo si innesta la retorica della “verità” e del rischio delle “fake news”. L’una e le altre usate come arma da taglio contro il presunto pericolo populista. L’assunto di fondo di tale schema è che i competenti dicono, per vocazione indiscutibile, la verità mentre i populisti propalano menzogne. Ebbene, Martino dipana, con perfida precisione, una lunga sequela di verità non dette, o di bufale  spacciate dal fronte dei competenti: a cominciare dall’indimenticabile caso del cronista del Corriere Ivo Caizzi, il quale denunciò la linea infondatamente allarmista del suo quotidiano a proposito di una presunta, imminente procedura di infrazione contro l’Italia, a fine 2018.

Per concludere –  non potendo affrontare ed approfondire come meriterebbero, tutti gli spunti offerti dal libro di Cervo –  possiamo almeno trarne una bussola per decifrare i tempi malmostosi che ci toccano in sorte.

Una volta dimostrato che il populismo non esiste se lo intendiamo come “deviazione” anti-democratica e  generalizzata di masse ignoranti (e confuse) dalla retta via, dobbiamo cominciare a domandarci se esista ancora una “retta via”.  Forse no. Forse il modello finora considerato come l’unico “retto” e inevitabile, e cioè quello della democrazia liberale, batte in testa proprio perché si  è separato dalle comunità nazionali.

Un piccolo punto di riferimento da cui ripartire possono essere le parole del papa emerito Ratzinger, pronunciate nel 2011 a Cernobbio e riportate dall’autore alla fine del suo lavoro: “Ultimamente, del destino degli altri uomini, decidono coloro che dispongono del potere scientifico e coloro che amministrano i mezzi (…), ma un ordine mondiale con questi fondamenti non diverrà in realtà un’utopia del terrore? Non ha forse bisogno l’Europa, non ha forse bisogno il mondo  proprio di elementi correttivi a partire dalla sua grande tradizione e dalle grandi tradizioni etiche dell’umanità?”.

A questa domanda retorica sappiamo tutti istintivamente come rispondere. E forse i cosiddetti populisti lo hanno capito prima dei sedicenti competenti. Il libro di Martino Cervo può essere un grosso aiuto – meglio di una seduta di autocoscienza – soprattutto per i secondi.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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