Attualità
Un intervallo alla propaganda europeista (vol. 7): L’ALTERNATIVA C’E’
Nella tradizione della retorica classica, le fallacie erano consapevolmente utilizzate dagli oratori per portare acqua al loro mulino, cioè al mulino della propria tesi. Non è molto etico? Non importa. L’obiettivo dell’arte della persuasione è quello di convincere il proprio interlocutore. L’obiettivo di un avvocato è quello di accattivarsi le preferenze di una giuria.
Lo scopo dei contendenti, nella gare di “eristica” dell’antica Grecia – in cui i sofisti eccellevano –, era quello di prevalere sull’avversario di turno, anche utilizzando ragionamenti zoppicanti, ma suggestivi. E per dimostrare che non contava tanto il contenuto degli argomenti e del messaggio quanto la forma in cui essi venivano presentati e l’abilità dei retori, i sofisti si sfidavano nel prendere posizione, a turno, pro e contro un medesimo argomento. Ecco una buona definizione di eristica, da dizionario: «L’arte di argomentare con ragionamenti sottili e speciosi, prescindendo dalla verità o falsità di quanto si sostiene: rappresenta la degenerazione della dialettica nell’ultima fase dell’antica sofistica». Direi che ci siamo capiti.
La falsa dicotomia, o falso dilemma, è una classica fallacia argomentativa sofistica. Consiste nell’offrire al proprio uditorio l’impressione che vi siano solo due opzioni praticabili sul tappeto: aut aut. Tertium non datur (una terza ipotesi non c’è), avrebbero detto gli antichi romani.
Non spaventatevi per lo spreco di latinismi perché la faccenda è molto semplice. Dicotomia, tanto per cominciare, è una parola di origine ellenica e deriva da dìcha (“in due parti”) e témno (“divido”): divido in due parti. La dicotomia è una divisione netta in due parti.
È definita anche come “fallacia della falsa scelta” e il suo aspetto subdolo è duplice: in primis, una terza scelta c’è. E magari anche una quarta e una quinta. Ma soprattutto, una delle due alternative è, all’evidenza, talmente “brutta” che solo un masochista o un bastian contrario per partito preso la sceglierebbe. Alla fin fine, semplificando al massimo la prospettiva del discorso e dando a intendere che ci siano solo un paio di possibilità sul tappeto, di cui una pessima, si costringe la controparte a optare per ciò che noi, a priori, abbiamo deciso essere giusto.
La tecnica è impiegata con l’intento preciso di forzare una decisione. Ed è, infatti, molto amata dai politici e dagli oratori perché genera un sentimento di urgenza e di coazione ad agire – in conformità ai desideri del manipolatore – in chi la subisce senza esserne consapevole.
Fa parte di questa tipologia di strumenti persuasivi (occulti) anche il noto trucchetto del venditore il quale mette immancabilmente una scadenza alla sua proposta: “La presente offerta sarà valida solo fino al 31 marzo!”. Se tu aderirai prima della mezzanotte, bene. Altrimenti avrai perso l’affare: sottinteso che è l’affare del secolo. Ma le applicazioni possono essere le più diverse.
Pensiamo allo slogan degli anni Settanta: “Né con lo Stato né con le BR”. Era un capovolgimento della fallacia di cui stiamo parlando. Fallacia che, nel caso, avrebbe suonato così: o con lo Stato o con le BR. E se uno odia le BR, ma non si riconosce neanche nello Stato? Vada a prendersi un caffè.
Altri esempi più in linea coi tempi attuali potrebbero essere: “O sei d’accordo con l’uso dei vaccini o sei un fanatico complottista”; “O con l’Occidente o con il terrorismo islamico”; “Chi non è favorevole alla riforma costituzionale, è per il mantenimento dello status quo” (vi ricorda qualcuno?). Il giochetto è molto efficace nella dinamica spesso superficiale e poco approfondita della conversazione odierna. Infatti, l’ascoltatore è indotto a credere non vi siano alternative oltre a quel paio prospettate come uniche e sole. Egli è, quindi, portato ad aggrapparsi all’unica delle due in apparenza seria, responsabile, “civile”.
Il barbatrucco è una strategia di complemento, e anche di completamento, rispetto alle altre usate nell’implementazione del cosiddetto “Grande Sogno” europeao.
Prima hanno attirato gli ignari popoli europei nella trappola della costruzione comunitaria. “Sigarette e cioccolata per l’Italia liberata”, pensava chi accoglieva, festante, gli americani nell’Italia del 1945. Nel nostro caso, al posto delle sigarette e della cioccolata, i nuovi conquistatori hanno usato la “favola” di un futuro radioso per attirarci sul tetto della felicità. Poi, hanno tolto la scala per impedirci anche solo la tentazione di scappare dal tetto.
Con la strategia della rana bollita, invece, hanno aggiunto a quel tetto le sbarre, ma non tutte insieme. Una alla volta, piuttosto. Con calma e senza clamore, un grado via l’altro, giusto quel che serviva per bollire la rana a sua insaputa.
Bene, anzi malissimo. Ma cosa dovevano fare, poi, per conservare le posizioni acquisite, cioè per mantenere le popolazioni europee nel recinto della fatidica Unione in cui erano riusciti a farle entrare un po’ per gioco e un po’ per distrazione? Ecco che entra in scena la strategia della cosiddetta “doppia dicotomia” ovvero della “fallacia della falsa scelta”.
Ricordiamoci sempre che il primo comandamento dei costruttori della UE, e dei più zelanti esecutori dell’agenda di lavori europeista, è far sì che i popoli del continente, costi quel che costi, non abbandonino mai il vicolo cieco in cui sono finiti.
Nel caso dell’Unione europea, la “variante” della tecnica è tale da raddoppiarne la forza d’urto e consiste in questo: non solo si pone la vittima di fronte a un dilemma tra due possibilità che apparentemente escludono qualsiasi altra, ma una delle due possibilità non si è mai verificata prima, oltre a fare ribrezzo. Nessuno l’ha mai realmente sperimentata, per fortuna. Quindi, nessuno può davvero pronunciarsi sulla sua validità, sulla sua bontà, sulle sue conseguenze. E non vorrebbe neppure essere costretto a farlo, manco sotto tortura, visto come gliela descrivono.
Infatti, la seconda opzione è dipinta con tutte le intonazioni di nero possibile, è raffigurata come un antro infernale, come un’autentica jattura, un dramma universale. A questo punto, il gioco è fatto. È sufficiente presentare al soggetto “target” i due corni del dilemma per star sicuri che egli sceglierà il primo, benché non allettante.
Le due alternative sul tappeto sono queste: da un lato, la permanenza nella UE e nell’euro, magari perfino aggiungendoci un pizzico di Europa “in più” che, secondo gli eurofili, non fa mai male; dall’altro lato, il cosiddetto exit.
Senonché, la “scappatoia” non è solo un’ipotesi resa difficile da coloro i quali concepirono e misero per iscritto i trattati; o addirittura impossibile, sul piano giuridico, secondo taluni (almeno per quanto riguarda la moneta unica). Essa è anche stata presentata dalla stampa che conta, dai giornali e dalle televisioni più seguite, dai media generalisti per intenderci, come una prospettiva apocalittica.
Per farvene un’idea pensate solo a quell’autentica campagna di terrorismo mediatico messa in piedi in prossimità del referendum sulla Brexit. Pareva che il Regno Unito dovesse, da un momento all’altro, accartocciarsi su se stesso e finire inghiottito dai flutti dell’Oceano Atlantico. Il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, arrivò a dire: «La Brexit potrebbe essere l’inizio della distruzione non solo dell’Unione europea, ma di tutta la civiltà politica dell’occidente». E non si trattava neppure di un’uscita dal sistema della moneta unica (la Gran Bretagna, buon per lei, non aveva mai rinunciato alla sterlina), ma di un’uscita dall’Unione.
Oppure pensate alla Grecia che, nell’estate del 2015, ebbe uno scatto di reni grazie a un referendum con il quale gli ellenici dissero di no alle ricette della Trojka. Nonostante questo, neanche ventiquattr’ore dopo, il prode Alexis Tzipras chinava la schiena sotto il bastone dei Mercati e di Bruxelles. E il fatto fu digerito dalla popolazione senza alcuna sommossa. Solo al prezzo di qualche mugugno. Perché? Perché la tecnica del dilemma funziona sempre. L’uso spregiudicato e mirato delle armi di manipolazione psicologica è più efficace di qualsiasi arma convenzionale.
Cosa scegliereste, se vi ponessero davanti a questo scenario: preferite mangiare un piatto di vermi o buttarvi dalla finestra del quinto piano? Vi assicuro che, salvo qualche aspirante suicida, tutti voi mangereste di gusto il piatto di lombrichi. L’uscita dall’euro è stata “tratteggiata” come un salto dal quinto piano. E, agli occhi dell’uomo medio europeo, tale è diventata, perché la propaganda crea la realtà (dal nulla, come abbiamo visto nel primo capitolo).
Una delle più abili utilizzatrici di questo schema fu Margaret Thatcher; guarda caso, proprio la Lady di ferro, passata alla storia, insieme a Ronald Reagan negli USA, come la più scrupolosa esecutrice delle ricette neoliberiste. In particolare, Margaret usava dire a ogni piè sospinto: There is no alternative. Non c’è alternativa. L’acronimo corrispondente (TINA) potrebbe essere considerato il simbolo stesso di un’epoca e la quintessenza, anzi addirittura la versione evoluta, della strategia di cui stiamo parlando.
Perché evoluta? Perché il TINA elimina addirittura il secondo corno del dilemma. Non ti è data più neppure la “finta” libertà di scegliere, giacché la strada è assolutamente decisa in partenza ed è a senso unico.
Questa convinzione ha a che fare anche con il culto tipicamente post-moderno per la “scienza”, in ogni ambito del vivere, anche in quello economico. Non ci sono alternative perché la scienza economica odierna è infallibile, ed è infallibile proprio in quanto rigorosamente “scientifica”. Un cane che si morde la coda.
In effetti, a ben vedere, la “ideologia” di matrice economica neoliberista, i cui massimi ispiratori furono l’austriaco Frederich Von Hayek e l’ucraino Ludwig Von Mises, è riuscita a imporsi, a livello globale (oltre che a monopolizzare il mondo accademico) proprio in quanto “scienza esatta”. Alla stessa stregua, per capirci, della matematica e della geometria.
Va da sé che – se i postulati e i parametri predicati dai neoliberisti sono per definizione “giusti” (come due più due fa quattro, diciamo) – allora aveva ragione la Lady di ferro nel sostenere che non c’erano alternative.
Così non è, ovviamente, perché non vi è disciplina forse più opinabile e meno affidabile dell’economia. Tuttavia, è bastato che si affermasse la “mappa del mondo” secondo cui i neoliberisti fanno “scienza pura”: da quel momento in poi, tutte le tappe del Gioco dell’oca sono state fatte passare come ineluttabili “stazioni intermedie” di una inesorabile marcia con un’unica direzione ammissibile; dove l’oca (da spennare) siamo noi.
Ma torniamo ora alla applicazione classica della fallacia in questione.
Oggi, questo tipo di sofisma lo troviamo applicato sempre più spesso al discorso europeo. In particolare, esso si declina in questo modo: o sei per l’Unione europea (cioè per i futuri Stati Uniti d’Europa) e quindi per il “Futuro”, per la “Pace”, per la “Democrazia”, per il “Progresso”; oppure sei per l’Italexit, cioè per l’uscita immediata dalla UE e dall’euro. Con tutte le tragedie annesse e connesse tratteggiate milioni di volte coi toni più cupi: punizioni esemplari, e inevitabili, comminate dai Mercati o dalla comunità internazionale. Punizioni – va da sé – meritate perché inflitte a chi si allontana dal “Bene” e si dirige verso il “Male”. E, quindi, doverosamente irrogate a chi osa mettere in discussione l’assetto politico internazionale del continente come è venuto a consolidarsi negli ultimi venticinque anni.
In verità, e se ci riflettiamo un po’, questa falsa dicotomia deve essere rispedita al mittente perché, appunto, è falsa come Giuda.
Non solo non sappiamo cosa accadrebbe se uscissimo dall’euro, perché è un fatto mai accaduto prima, ma non è neppure vero che ci sia solo l’alternativa secca tra uscire immediatamente e avanzare come treni verso gli USE.
Insomma, è manipolatorio ridurre le opzioni solo e soltanto a due, quando parliamo di Europa unita, di euro e degli sviluppi politici, economici e sociali del processo di unificazione. E, soprattutto, non è affatto vero che uno scenario sia “Buono” e l’altro “Cattivo” come, rispettivamente, il Paradiso e l’Inferno di Dante Alighieri.
Tra la prospettiva di un Super-Stato poliziesco a nome “Stati Uniti d’Europa” e quella di un continente di Stati sovrani, dai confini rigorosamente serrati – e in assetto bellico, gli uni nei confronti degli altri – ci sono un sacco di alternative di mezzo. Un sacco di sfumature di blu, per così dire.
La verità è che non ci sono (quasi) mai solo due possibilità. Ce ne sono (quasi) sempre a decine. Ma se ci facciamo irretire da questo espediente retorico finiremo per abbassare la testa. E concluderemo che – se bisogna proprio scegliere tra un’unione definitiva e integrale (politica, economica e fiscale) dei popoli europei e la terza guerra moindiale – allora è meglio senz’altro andare avanti.
Per chiudere – se volete capire come lorsignori siano perfettamente consapevoli della forza e della sottigliezza di questa strategia – andate a rivedervi alcune esternazioni di Mario Monti a proposito della crisi della Grecia e delle preferenze del popolo greco.
Ce n’è una, in particolare, in cui il nostro ex premier disquisisce con il filosofo Diego Fusaro e gli suggerisce di dare un occhio a quei sondaggi secondo i quali i greci preferiscono (nonostante l’enormità e l’evidenza della crisi del loro Paese) restare nell’euro. Certo che sì! Monti ha ragione. Solo che omette di spiegarci il perché di questo atteggiamento apparentemente assurdo e irrazionale.
Quella che, secondo lui, sarebbe la prova di un indomito spirito europeistico, in realtà è solo la fottuta paura di precipitare dal quinto piano (cioè di uscire dall’euro). È questa prospettiva ad aver trattenuto gli eredi di Ulisse dalla loro Odissea verso la libertà. E ad averli convinti a continuare a nutrirsi di lombrichi.
Se vogliamo evitare un avvenire in cui lombrichi e cavallette costituiranno il menù della casa, e non solo sul piano metaforico, dobbiamo cominciare a pensare, e a credere, che L’ALTERNATIVA C’E’.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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