Attualità
TRUMP TRUPPEN
La tradizione evangelica insegna che bisogna distinguere il peccato dal peccatore. Parafrasando il monito, potremmo dire che si deve distinguere anche la comunicazione dal comunicatore; o il messaggio dal messaggero, se preferite. Ed è doveroso farlo più che mai di fronte all’ormai famosissimo, e commentatissimo, discorso di insediamento presidenziale di Donald Trump. Perché di quest’ultimo possiamo pensare tutto il bene o tutto il male possibile, ma non possiamo negare l’impatto clamoroso del personaggio (e dei suoi slogan).
È ben vero che la sua biografia, le idee, le parole e le azioni sono ben lungi dall’essere sempre state impeccabili o condivisibili. E tuttavia, se riusciamo per un attimo a togliere di torno il presidente neoeletto, la sua gigantesca e contraddittoria figura, e a rimanere da soli con il suo discorso non possiamo che arrivare a una conclusione. Trattasi non solo di una orazione “civica” epocale, per le conseguenze che già sta avendo a ogni latitudine, ma di un sermone impeccabile sul piano della forza comunicativa, dei contenuti concreti, dell’afflato quasi messianico. E, dunque, ci troviamo dinanzi a un panegirico ben concepito, ma altrettanto lodevolmente “sentito” nonché magistralmente declamato.
Questo è il primo punto: Trump ha fatto un’arringa trascinante perché “vera” in faccia all’agorà americana e mondiale; ma non nel senso che egli abbia detto necessariamente cose vere, bensì nel senso che il tycoon crede davvero in ciò che dice. E ha agito con la consapevolezza di un capo in grado di far seguire i risultati agli annunci. Invece, noi siamo stati negli ultimi anni letteralmente ammorbati – a livello locale, europeo e globale – dai noiosi ghirigori verbali di politici che non credevano in ciò che dicevano, oppure recitavano a soggetto, in base a un copione scritto o a un’agenda predisposta altrove. Ovvero con la riserva mentale (indicibile) di non volere davvero ciò che sbandieravano o di volere qualcosa solo perché c’era qualcuno di più potente, e di molto nascosto, che glielo imponeva.
Per intenderci meglio: i discorsi di Biden sanno tanto di filastrocche ripetute a pappagallo, i pipponi della Von der Layen e di tutti i suoi colleghi di Eurolandia suonano più falsi di una moneta da tre euro. Quanto a quelli dei nostri sedicenti leader, o presunti tali, si percepisce lontano un miglio il tintinnio di un guinzaglio; sia esso impugnato dalla Ue, dall’OMS, dalla Nato o da qualche altra “agenzia” più discreta, e pure più persuasiva. Il discorso di Trump, invece, è – comunque la si pensi sul contenuto – vero, anzi verace, come un sorso d’acqua fresca in gola o come una palla di neve sul collo (a seconda che vi piaccia o vi dispiaccia). In entrambi i casi, a qualunque schieramento voi apparteniate, avete “colto” che quell’uomo non solo fa sul serio ma segue una “sua” linea.
Poi, magari, avrà anche lui dei secondi fini inconfessati, delle brave leggi non scritte, o delle potenti logge non dette (da rispettare e assecondare), ma, vivaddio, è andato dritto al punto di un progetto politico a dir poco destabilizzante rispetto alla “governance”, alle “regole”, alle parole “d’ordine” toccateci in sorte negli ultimi due decenni, in Italia, in Europa e nel mondo.
Ma l’aspetto stupefacente è che Trump, in realtà, non ha detto nulla di rivoluzionario; solo cose di una banalità sconcertante. Robe che sanno benissimo tutti, persino chi sostiene il contrario: per convenienza economica, per ignoranza abissale, per dissonanza cognitiva o per cretinismo congenito.
Tipo:
1) che i sessi sono due, a dispetto di chi vorrebbe moltiplicarli a capriccio e fare di ciò un’incoercibile esigenza “sociale”;
2) che un paese sovrano ha diritto di regolamentare i flussi migratori e, quindi, di respingere chi vi entra sine iure (esattamente ciò che il Santo Padre contesta predicando e poi conferma legiferando in Vaticano);
3) che il cambiamento climatico di origine antropica è una cagata pazzesca, forse più della fantozziana corazzata Potemkin;
4) che è suo dovere, in qualità di capo di uno stato sovrano, fare gli interessi dello Stato di cui è a capo (ben prima di quelli delle elite transnazionali con l’ambizione di mettersi a capo del mondo);
5) che punta a mettere fine a più guerre possibili anziché combatterne a gogò (come hanno fatto invece il suo predecessore dem e tutti i “democratici” dottor Stranamore del mondo, connotati dallo strano amore per invasioni, carri armati, missili e affini);
6) che non tollererà più la censura del libero pensiero, tantomeno se esercitata per procura; il contrario di quanto fa l’Europa, con il Digital Service Act, usando come sicari i paperoni del web e come cani da riporto i cosiddetti fact checkers.
Proprio il fatto che concetti come questi suonino – alle orecchie di tutti (amici e nemici di Trump) – come il presentimento di una rivoluzione, ci fa capire quanto eravamo caduti in basso; e anche quanto avanti era arrivato l’ambizioso progetto di certe cupole “progressiste” (e di certi filantropi capitalisti dal volto disumano) di rifare il mondo da zero.
Ebbene, se la normalità è diventata rivoluzionaria, e cioè eccezionale, allora viviamo tempi eccezionali che richiedono soggetti rivoluzionari. Ciò non significa desiderare che Trump si dimostri tale (con gli uomini della Provvidenza abbiamo già dato), ma che dobbiamo diventarlo noi tutti, giorno dopo giorno, disobbedendo sistematicamente alle “norme” (e ai relativi “diritti” e “doveri” inventati) dell’ancien régime. Quantomeno se vogliamo che quel discorso non sia solo un illusorio intervallo nella precedente, e tuttora ben avviata, discesa agli inferi; ma, semmai, l’autentico inizio di una definitiva fuoriuscita dal tunnel.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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