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Trump, la stangata sui visti H-1B: 100.000 dollari l’anno. Silicon Valley costretta ad assumere americani?
Una tassa shock da 100.000 dollari sui visti per i lavoratori tech stranieri: la mossa di Trump promette più lavoro per gli americani, ma la Silicon Valley trema. Rischia di innescare una fuga di cervelli e costringere le aziende a delocalizzare. Ecco cosa cambia davvero.

Il Presidente Donald Trump ha firmato un provvedimento che impone una tassa di ben 100.000 dollari all’anno per ogni visto H-1B, il permesso di lavoro su cui si regge buona parte del settore tecnologico statunitense per l’assunzione di talenti specializzati dall’estero. A questo si aggiunge una paga minima garantita annua di 150 mila dollari, contro i 60 mila necessari sino ad ora. Una stretta notevole ai visti concessi ai tecnici stranieri, soprattutto indiani, che lavorano nelle grandi società della Silicon Valley.
Come se non bastasse, ha introdotto anche una “gold card“, una sorta di visto per ricchi, che garantisce la residenza permanente a chi può permettersi di sborsare un milione di dollari. “L’importante è che avremo persone fantastiche che arriveranno, e pagheranno”, ha dichiarato Trump, con la consueta schiettezza. Ma dietro lo slogan, la realtà economica è ben più complessa.
Cosa sono i Visti H-1B e perché sono così importanti
I visti H-1B sono da decenni la linfa vitale della Silicon Valley e di tutto l’ecosistema high-tech americano. Permettono alle aziende di assumere lavoratori stranieri con competenze specialistiche – ingegneri, scienziati, programmatori – per un periodo iniziale di tre anni, estendibile a sei. Ogni anno ne vengono concessi 85.000 tramite un sistema a lotteria. Ora solo quelli che valgono 250 mila dollari all’anno resteranno negli USA: 100.000 di tassa annua e 150.000 di paga minima garantita.
L’obiettivo dichiarato dall’amministrazione, per bocca del Segretario al Commercio Howard Lutnick, è quasi lapalissiano: “Se devi formare qualcuno, forma uno dei neolaureati delle nostre grandi università. Formate gli americani. Smettetela di importare persone per rubarci il lavoro”. Una logica protezionista impeccabile, sulla carta. Ma il diavolo, come sempre, si nasconde nei dettagli.
L’impatto: due scenari opposti ma complementari
Una tassa così proibitiva non è un semplice ritocco, è un vero e proprio terremoto che ridefinisce le regole del gioco. Le conseguenze si diramano in due direzioni principali, quasi opposte ma strettamente collegate.
1. La Fine della Competizione a Basso Costo (per gli Americani)
Il primo effetto, quello desiderato da Trump, è evidente. Per le aziende statunitensi, assumere un ingegnere indiano o cinese diventerà economicamente insostenibile. A fronte di un costo aggiuntivo di 100.000 dollari l’anno e una paga minima garantita di 150.000 dollari, la convenienza svanisce. Questo crea un vantaggio competitivo enorme per i lavoratori locali. Ingegneri, programmatori e scienziati nati e formati negli USA si troveranno improvvisamente con:
- Meno concorrenza: La vasta platea di talenti globali a basso costo viene di fatto esclusa dal mercato del lavoro interno.
- Più potere contrattuale: Le aziende, affamate di competenze, saranno costrette a contendersi i professionisti americani, con probabili aumenti salariali.
Insomma, un toccasana per l’occupazione qualificata interna. Almeno nel breve periodo.
2. La Fuga dei Cervelli… e delle Aziende
Qui arriva il rovescio della medaglia. Le grandi corporation tecnologiche non sono enti di beneficenza. Di fronte a un simile ostacolo, hanno due strade alternative all’assunzione di un americano:
- Esternalizzazione (Outsourcing): Se non posso portare il programmatore indiano in California, porterò il lavoro di programmazione in India. Le aziende potrebbero essere incentivate a non assumere più personale negli USA, ma ad appaltare interi progetti a società estere (indiane, est-europee, ecc.), dove il talento costa meno e non ci sono tasse d’ingresso. Il lavoro non verrebbe “protetto”, ma semplicemente delocalizzato in blocco.
- Emigrazione dei Talenti: I migliori cervelli indiani (che, ricordiamolo, rappresentano il 71% dei beneficiari di visti H-1B) o cinesi non smetteranno di cercare opportunità. Semplicemente, si dirigeranno altrove: Canada, Regno Unito, Germania, o torneranno nei loro paesi d’origine, rafforzando le economie concorrenti.
Come ha notato Jeremy Goldman, analista di eMarketer, “nel breve termine, Washington potrebbe incassare una fortuna; nel lungo termine, gli USA rischiano di tassare via il loro vantaggio innovativo, scambiando il dinamismo con un protezionismo miope”. Per non parlare dei dubbi sulla legalità della misura, sollevati da più parti, dato che il Congresso autorizza il governo a imporre tasse solo per coprire i costi amministrativi di una pratica, non per fare cassa o politica industriale.
Questi colossi, secondo Lutnick, sarebbero “tutti a bordo”. Difficile crederlo, considerando i milioni di dollari di costi aggiuntivi che dovranno affrontare. Più probabile che stiano già facendo i conti per capire quanto e dove delocalizzare.
La mossa di Trump è una scommessa: sacrificare parte del dinamismo cosmopolita della Silicon Valley sull’altare della protezione del lavoro nazionale. Potrebbe funzionare per alcuni, ma rischia di accelerare un processo già in atto: la decentralizzazione del potere tecnologico globale, a tutto svantaggio di chi, finora, ne è stato il centro indiscusso. Però, nel breve termine, i cittadini americani ne avranno un buon vantaggio.
Domande e Risposte per i Lettori
1. Quali saranno le aziende più colpite da questa nuova tassa? Le più colpite, paradossalmente, non saranno i giganti come Google o Amazon, che hanno le risorse per delocalizzare intere divisioni o pagare le tasse. A subire il danno maggiore saranno le startup e le piccole e medie imprese tecnologiche. Queste aziende spesso non hanno la capacità di aprire sedi all’estero e si affidano ai visti H-1B per trovare talenti specializzati che non riescono a reperire sul mercato locale a costi sostenibili. Per loro, una tassa di 100.000 dollari per dipendente è semplicemente un costo insostenibile che potrebbe bloccarne la crescita o addirittura decretarne il fallimento.
2. Questa misura è legale e definitiva? Ci sono seri dubbi sulla sua legalità. Esperti di diritto dell’immigrazione, come Aaron Reichlin-Melnick dell’American Immigration Council, sostengono che il governo federale può imporre tariffe per coprire i costi di elaborazione di una domanda, non per creare una tassa punitiva o per finanziare altre iniziative. È molto probabile che la misura venga immediatamente impugnata in tribunale dalle associazioni di categoria del settore tecnologico. La sua implementazione, quindi, potrebbe essere ritardata o addirittura bloccata da un giudice federale, in attesa di una revisione legale approfondita.
3. Quali paesi potrebbero beneficiare di questa politica restrittiva degli USA? Il principale beneficiario sarà probabilmente il Canada, che da anni porta avanti politiche attive per attrarre talenti qualificati respinti o in attesa negli USA, con percorsi di immigrazione molto più rapidi e snelli. Anche paesi europei come la Germania e il Regno Unito, sempre a caccia di ingegneri e specialisti IT, potrebbero vedere un aumento di candidature. Inoltre, questa politica potrebbe rafforzare gli stessi hub tecnologici in India (es. Bangalore) e Cina, spingendo i talenti a rimanere in patria o a rientrare, arricchendo l’ecosistema locale invece di quello americano.

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