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TRUMP IL RIVOLUZIONARIO di Marcello Bussi

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Su un punto i due protagonisti della sfida per la Casa Bianca più aspra della storia recente sono d’accordo: gli Stati Uniti hanno bisogno di nuove infrastrutture. Su tutto il resto la distanza fra la candidata democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump non potrebbe essere più abissale. Se vincesse l’ex segretario di Stato ci sarebbe una sostanziale continuità con l’amministrazione Obama.

La stabilità politica è sempre apprezzata dai mercati. Peccato che la riapertura da parte dell’Fbi dell’inchiesta sulle email della Clinton abbia rovinato tutto. Ora c’è il rischio che la prima donna presidente nella storia degli Stati Uniti possa essere messa sotto impeachment dal Congresso, facendo la stessa fine di Richard Nixon. Se i repubblicani manterranno la maggioranza alla Camera, la Clinton potrebbe quindi essere messa in condizioni di debolezza fin dalla nascita della sua amministrazione. E i mercati non gioiscono di certo davanti a questa prospettiva.

Una vittoria di Trump è invece vista come il fumo negli occhi da Wall Street. E lo si può capire. Se una volta alla Casa Bianca il magnate newyorkese rispettasse il suo programma elettorale, il mondo si troverebbe davanti alla fine dell’era cominciata nel 1979 con la nomina a premier britannico di Margaret Thatcher, seguita l’anno successivo dalla vittoria alle presidenziali Usa di Ronald Reagan. Finirebbe l’era della globalizzazione, del neoliberismo e del primato della finanza. Trump vuole riportare i posti di lavoro negli Stati Uniti: per questo promette un muro al confine col Messico (che già esiste in alcuni tratti) e a Detroit non ha esitato a dire davanti a una platea di dirigenti della Ford che «se chiudete le vostre fabbriche in città per aprirle in Messico metterò un dazio del 35% su tutte le auto lì prodotte, e vedrete che non le comprerà più nessuno».

Il candidato repubblicano è contrario a tutti i trattati di libero scambio, dal Nafta al Ttip. Verrebbe così smantellato l’apparato ideologico dell’era Reagan, il cui programma di deregulation è stato portato a compimento con l’abolizione del Glass-Steagall Act, che sanciva la separazione fra le banche commerciali e quelle di investimento, nel 1999 sotto la presidenza di Bill, il marito della Clinton. Si tratterebbe di una rivincita dei sovranisti contro i globalizzatori, che andrebbe in direzione opposta alla vittoria dei seguaci di Milton Friedman su quelli di John Maynard Keynes ai tempi di Reagan. Il paragone potrebbe sembrare incongruo. Non tutti, però, ricordano che all’epoca le idee propugnate dall’ex attore di Hollywood vennero accolte con ribrezzo da buona parte dell’opinione pubblica, mentre George Bush, lo sfidante di Reagan per la nomination che incarnava l’establishment repubblicano, le aveva ribattezzate «Voodoo economics».

Come ha sottolineato Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, «Wall Street ci mise due anni prima di accettare Reagan. La borsa scese del 20 per cento dopo la sua elezione prima di salire del 145 per cento nei sei anni successivi». Non è detto che la storia si ripeta, ma è bene ricordare che un presidente oggi considerato una sorta di divinità, quando venne eletto era trattato dai più come un Trump qualsiasi. I primi due anni di Reagan vennero resi più difficili dalla serie di rialzi dei tassi d’interesse decisa dal presidente della Federal Reserve Paul Volcker per stroncare l’inflazione, che all’epoca c’era davvero e nel 1981 era salita fino al 13,5%.

Un rialzo dei tassi incombe anche su Trump: è quasi sicuro che a dicembre Janet Yellen aumenterà il costo del denaro, a meno che la vittoria del candidato repubblicano non porti un aumento della volatilità tale da consigliare un rinvio. Ma la similitudine finisce qui, visto che ora l’inflazione negli Stati Uniti è inferiore al 2%. Philippe Waetcher, capo economista di Natixis, ha osservato che l’obiettivo di Trump è quello di «stimolare il mercato domestico» e di «rafforzare l’indipendenza degli Stati Uniti dal resto del mondo». Un intento gravido di conseguenze sul resto del mondo.

Una delle differenze fondamentali fra i due candidati sta nell’indicazione del nemico numero uno degli Stati Uniti. Per Trump è la Cina che, come è scritto nel suo programma, verrebbe subito accusata di manipolazione della valuta. In questo modo verrebbe spalancata la porta all’introduzione di pesanti dazi sulle merci cinesi. Per la Clinton il cattivissimo della situazione è invece Vladimir Putin. Con l’ex segretario di Stato alla Casa Bianca le sanzioni alla Russia verrebbero prolungate e forse anche inasprite. Sanzioni che fanno soffrire l’economia italiana, in particolare le Marche colpite dal terremoto. Su Putin, Trump la pensa invece in maniera diametralmente opposta. E quindi probabile che le sanzioni verrebbero attenuate, se non addirittura cancellate, nel giro di breve tempo. A vantaggio dell’Italia.

Poiché Trump è un sovranista, il futuro dell’Ue avrebbe un importante elemento di rischio in più. Se Obama e la Clinton si sono schierati apertamente per la permanenza del Regno Unito nell’Ue, nel corso della campagna referendaria Trump non ha nascosto le sue simpatie per la Brexit. I complottisti già dicono che in caso di vittoria del repubblicano si innescherebbe una reazione a catena che porterebbe alla vittoria del No al referendum costituzionale in Italia fino ad arrivare alla vittoria di Marine Le Pen alle presidenziali francesi. Senza arrivare a questo, è comunque probabile che in caso di nuove tensioni all’interno dell’Ue e della zona euro, Trump non si darebbe molto da fare per cercare di bloccare le spinte centrifughe. Insomma, al contrario del presidente della Bce, Mario Draghi, non farebbe tutto il possibile per salvare l’euro. E qui si arriva al rapporto con la Germania.

Gira voce che Trump sarebbe molto meno accomodante di Obama e della Clinton nei confronti di Berlino. D’altronde nell’ultimo anno le pesanti multe a Volkswagen  e a Deutsche Bank  sono state considerate come il segnale di una guerra commerciale strisciante fra i due Paesi. Se Trump non è preoccupato dai destini dell’euro, allora è inutile tollerare certe politiche del poliziotto della moneta unica, ovvero l’austerità estrema della cancelliera Angela Merkel e del suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble. Forse i mercati hanno ragione a temere Trump: con lui la musica rischia di cambiare davvero.

Marcello Bussi, Milano Finanza 5 novembre 2016


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