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Economia

Dazi Trump: PIL in ginocchio o il piano farmaceutico salva l’Europa?

Donald Trump alza la posta con dazi del 50% sull’Europa. Analisi delle conseguenze devastanti per l’economia UE, la dipendenza dagli USA e il ruolo cruciale del settore farmaceutico. L’Europa riuscirà a salvarsi, o imploderà economicamente ?

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Donald Trump è tornato a far parlare di sé con il suo annuncio incendiario sul suo social network Truth Social, un classico della sua strategia negoziale: lanciare una provocazione per mettere l’avversario sotto pressione e ottenere un vantaggio al tavolo delle trattative.

Questa volta, il bersaglio è l’Europa, minacciata da dazi doganali ancora più pesanti rispetto a quelli annunciati lo scorso 2 aprile. Se un mese fa si parlava di tariffe del 20% sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, ora il presidente americano ha alzato la posta, prospettando un aumento al 50% a partire da giugno, se le negoziazioni non dovessero avanzare.

Una mossa che, se concretizzata, potrebbe avere conseguenze devastanti per l’economia del Vecchio Continente, già fragile, e che mette in luce la dipendenza europea dal mercato statunitense. Una dipendenza che si basa su un surlus commerciale effettivamente eccessivo, in un sistema sano di commerci internazionali, come ben mostra questo grafico di Setser, che evidenzia come il surplus commerciale UE sia superiore a quello Canadese e non abbia nulla da invidiare a quello della Cina

Syurplus commerciale vs US: Blu UE, azzzurro Messico, Rosa Canada, linea rossa Cina

La dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti

L’Europa si trova in una posizione di vulnerabilità. Nel 2024, i 27 Stati membri dell’Unione Europea hanno esportato beni verso gli Stati Uniti per un valore di 531 miliardi di euro, rendendo gli USA il primo mercato di riferimento per l’industria europea. Questo flusso commerciale ha generato un surplus di quasi 200 miliardi di euro, un dato che sottolinea quanto il mercato americano sia cruciale per la crescita europea. Come ha evidenziato l’ex premier italiano Mario Draghi in un discorso a Coimbra, in Portogallo, “dobbiamo chiederci perché dipendiamo così tanto dai consumatori americani per stimolare la nostra crescita”. La ripresa post-Covid, infatti, si è basata in gran parte sulle esportazioni, e una brusca interruzione di questo canale potrebbe spingere l’Europa verso la recessione.

Gli economisti hanno già calcolato i potenziali danni. Secondo Andrew Kenningham di Capital Economics, un dazio del 50% sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti potrebbe ridurre il PIL tedesco dell’1,7%, quello italiano dell’1,25% e quello francese dello 0,75% entro tre anni. Per la Germania, già alle prese con un’industria in difficoltà e una crescita stagnante per il terzo anno consecutivo nel 2025, una simile misura sarebbe insostenibile. A livello europeo, Carsten Brzeski di ING prevede una contrazione del PIL di 0,6 punti percentuali già nel primo anno, con il rischio concreto di una recessione.

Ma il danno non si limiterebbe ai numeri. Come spiega Anthony Morlet-Lavidalie di Rexecode, tariffe così elevate sui beni europei, superiori persino a quelle applicate alla Cina, metterebbero l’UE in una posizione insostenibile. Gli industriali europei, a differenza di quelli cinesi, non hanno la possibilità di aggirare i dazi esportando attraverso paesi terzi. Inoltre, l’Europa dovrebbe affrontare contemporaneamente una “valanga” di beni cinesi a basso costo, che potrebbero ulteriormente indebolire le sue industrie. sarebbe l’implosione economica, il Redde Rationem di trent’anni di politiche economicihe e indistriali completamente sbagliate concentrato in pochi mesi. La UE imploderebbe perché i singoli paesi preferirebbero trovare una soluzione propria, uno per uno, che essere legati a un macigno che si inabissa.

La necessità di un accordo e i limiti delle alternative

Mario Draghi ha sottolineato l’urgenza di diversificare i mercati e ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti, ma ha anche ammesso che “nessuno può sostituire il mercato americano” nel breve termine, sia per la sua dimensione sia per i margini di profitto che offre agli esportatori europei.

L’unica strada percorribile sembra essere un accordo con Washington. Tuttavia, come nota Agathe Demarais del Consiglio europeo per le relazioni internazionali, un dazio del 50% sarebbe dannoso anche per l’economia americana, un fattore che potrebbe spingere i mercati finanziari a esercitare pressioni su Trump per moderare la sua posizione.

Nel frattempo, l’Europa si trova in una posizione di svantaggio. Se le minacce di Trump si concretizzassero, l’UE potrebbe ricorrere al suo strumento anti-coercizione per rispondere alle tariffe, ma ciò rischierebbe di innescare una spirale di ritorsioni che danneggerebbe entrambe le parti. Una impasse momentanea rischierebbe di diventare un blocco definitivo, e la fine oggettiva delll’Occidente come lo conosciamo. 

Il nodo del settore farmaceutico

Un aspetto cruciale, spesso trascurato, è il ruolo del settore farmaceutico nel deficit commerciale tra Stati Uniti ed Europa. Come evidenziato dal bravo  economista Brad Setser su X, il commercio di farmaci rappresenta oltre la metà del disavanzo bilaterale. Gran parte di questo squilibrio deriva dalla produzione su licenza di farmaci americani in Europa, in particolare in Irlanda, dove le aziende statunitensi hanno stabilito basi produttive per sfruttare incentivi fiscali.

Secondo Setser, “non c’è soluzione al deficit commerciale bilaterale senza affrontare il commercio farmaceutico”. Questo significa che qualsiasi negoziato dovrà necessariamente includere una revisione degli incentivi fiscali che spingono le aziende USA a produrre in Europa per poi riesportare negli Stati Uniti.  Il fatto che sia proprio il settore farmaceutico la causa dell’esplosione di questo deficit è mostrato dal sequente grafico, sempre messo a disposizione da Setser

Fonti del deficit commerciale USa UE: in blu il tutale, il verde il settore farmaceutico i puntini indicano il deficit senza il farmaceutico

Setser sottolinea anche un altro punto: le discussioni attuali non sembrano toccare il settore farmaceutico, nonostante l’assenza di barriere tariffarie formali e il suo peso economico. Questo silenzio è preoccupante, perché una soluzione al deficit commerciale potrebbe richiedere interventi radicali, come la rilocalizzazione della produzione negli Stati Uniti, con conseguenze per l’Irlanda e per l’intera filiera europea.

Qualsiasi altra misura di standardizzazione che colpisca l’agroalimentare, ad esempio, non risolverà il problema, anzi rischia di peggiorarlo: se si standardizzasse il settore della carne avicola il problema sarebbe ancora per gli USA perchè i costi europei sono inferiori, ad esempio. Il digitale avrebbe pochi effetti, solo il farmaceutico è il passaggio obbligato per la correzione di rotta, ma la UE non ha mai avuto il coraggio di affrontare il problema dei propri paradisi fiscali interni.  Il problema non è  Trump, ma l’inefficiente struttura interna europea.

Un equilibrio fragile

La strategia di Trump, per quanto possa sembrare un bluff, mette l’Europa di fronte a una scelta difficile: cedere alle pressioni per evitare un disastro economico o cercare di resistere, rischiando una guerra commerciale che nessuno vuole e che comunque sarebbe un disastro. La dipendenza dal mercato americano, unita alla vulnerabilità del settore farmaceutico, rende la posizione europea particolarmente fragile.

Come suggerisce Draghi, l’UE deve lavorare per ridurre questa dipendenza, ma nel breve termine un accordo con gli Stati Uniti sembra inevitabile. Riuscirà l’Europa a trovare una strategia che protegga i suoi interessi senza soccombere alle minacce di Trump?  Viste le qualità diplomatiche mostrate sinora dalla Commissione c’è da dubitarle. L’alternativa sarà il “Liberi tutti”  nelle trattative, che sarebbe la fine della UE.


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