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TRATTATO DI ROMA: L’OPINIONE DI PAOLO SAVONA
In vista del 60° anniversario dei Trattati di Roma, il Parlamento europeo sta chiarendo la sua posizione sul futuro dell’Unione. Durante l’ultima sessione plenaria (13-16 febbraio u.s.), sono stati posti all’attenzione delle istituzioni europee tre punti: il primo è la valorizzazione del trattato di Lisbona, attraverso una risoluzione redatta da Mercedes Bresso ed Elmar Brok, in cui si indicano i vantaggi del metodo comunitario rispetto a quello intergovernativo. Si indicano qui le linee generali: il Consiglio europeo dovrebbe attenersi al suo ruolo di definizione delle priorità politiche, lasciando il processo legislativo al Consiglio dei ministri e al Parlamento europeo. Il secondo punto, a cura di Guy Verhofstad, è dedicato alla riforma profonda del trattato di Lisbona, considerato il fatto che l’Europa non risulta oggi in grado di risponder efficacemente e con rapidità alle crisi: bisognerebbe perciò iniziare a muoversi al di fuori degli strumenti attualmente a disposizione. Da ultimo, gli eurodeputati Reimer Böge e Pervenche Berès si sono occupati della definizione di una strategia di convergenza, oggi non presente, su mercato del lavoro, investimenti, produttività e coesione sociale. Ne parliamo con Paolo Savona, Professore emerito di Politica economica, già Ministro dell’industria e Direttore generale per le politiche comunitarie.
Il 2017 è un l’anno del sessantesimo anniversario. Secondo Lei, qual è il clima a livello istituzionale, oggi, rispetto all’efficacia delle politiche dell’Ue?
I sondaggi di opinione continuano ad assegnare la maggioranza ai favorevoli all’UE, ma non alle sue politiche, per le quali chiedono cambiamenti. Poiché non li ottengono aumentano i movimenti politici antieuropei. L’Europa è in mezzo a un guado.
La Germania è ancora “Paese inaffidabile”, come Lei stesso ha affermato[1], oppure, date le recenti sorti dell’Europa – si pensi anche solo alla Brexit e alle minacce del terrorismo – c’è speranza in un suo ruolo più costruttivo?
Confermo la mia valutazione in relazione alla possibilità che la Germania si impegni a costruire l’Europa unita che fu promessa nel 1992. Ritengo che a seguito dei suoi successi sul piano economico e politico, la Germania abbia recuperato vecchi vizi politici, e si stia allontanando dall’UE. Penso che stia commettendo l’errore di considerarsi capace di restare forte senza di essa.
Nella prima risoluzione di oggi a Strasburgo, si vogliono ancora una volta valorizzare i vantaggi del metodo comunitario rispetto a quello intergovernativo. Ci si può auspicare che in tempi di crisi, si collabori davvero di più che in passato?
Dovrebbe essere così dopo il mutato atteggiamento degli Stati Uniti, che è emerso con Trump, ma era già in atto con Obama. L’UE è sotto attacco e dovrebbe stringere le fila, cooperando maggiormente. L’alleanza USA-Russia e il rifiuto di Trump di pagare i coisti europei della difesa Nato dovrebbe rafforzare l’UE ma, salvo rari casi, il metodo comunitario non ha mai funzionato; l’intera costruzione europea è basata sulle relazioni intergovernative, che sono rapporti basato sulla forza, non sull’eguaglianza tra i cittadini europei.
Si vuole altresì riformare il trattato di Lisbona, consapevoli della mancanza di risposte efficaci e rapide da parte dell’Ue alle crisi attuali. Lei cosa prevede in merito?
La mia valutazione è che non si possa fare niente, perché dei protagonisti che volevano un’Europa coesa, uno è uscito, il Regno Unito, uno è incerto (lo vedremo presto), la Francia, uno è in crisi, l’Italia, e uno restio a prendersi la responsabilità politica, la Germania. La Signora Merkel è più saggia del suo elettorato, ma non può ignorarlo, e il suo elettorato vuole l’Europa se conviene, non per ragioni di filosofia dello Stato, alla quale da Kant in poi sono stati dati importanti contributi che i tedeschi mostrano di non sapere apprezzare.
Mercato del lavoro, investimenti, produttività e coesione sociale sono le aree su cui si manifesta la necessità di una convergenza, da raggiungere attraverso una specifica capacità di bilancio dell’area euro. Verso quale Europa ci si muoverebbe attraverso l’implementazione di tale strumento?
Quello che mi chiede è un esercizio meramente teorico nel quale molti studiosi si sono cimentati. Io ho partecipato direttamente ai lavori per la costruzione di una società europea basata sulla conoscenza, l’ultima seria iniziativa dell’UE presa nel Summit di Lisbona del 2000. Non se ne fece niente perché non esiste alcuna intenzione di mettere in comune, a parità di diritti e doveri, tutti i cittadini europei. Non puoi costruire una nuova società-Stato dove alcuni sono considerati più bravi e meritevoli di altri – e, quindi, da proteggere, e i più deboli da abbandonare. Viene meno l’essenza dello stare insieme.
La coesione economica interna è uno degli aspetti più importanti per l’Europa. Accanto a questo, però, eventi come la Brexit lanciano un segnale chiaro: l’austerità ha creato malcontento, il malcontento apre la strada ai populismi. Quindi, negli assetti di politica economica dell’Ue, qualcosa non ha funzionato…
Dire che solo qualcosa non ha funzionato è un mero eufemismo. Non ha funzionato l’architettura istituzionale: un mercato privo delle stesse regolamentazioni, soprattutto tributarie, un mercato del lavoro aperto (la direttiva Bolkenstein per i servizi fu respinta), un mercato dei capitali solo apparentemente libero, e così via.
Le relazioni economiche con i Paesi terzi sono fondamentali in un sistema economico aperto, globale. L’Europa di oggi, però, si trova in una fase di incertezza nei rapporti con gli USA, a causa dell’amministrazione Trump. Ma c’è ragione di ritenere che i rapporti siano incrinati davvero?
Non credo che le relazioni UE-Stati Uniti siano veramente incrinate. Dobbiamo attendere di vedere gli effetti della politica di Trump e nel mentre prepararci a reagire insieme; ma ripeto che non vedo ancora il delinearsi di una nuova forma di cooperazione europea. Tutti sono convinti di farcela da soli. Saranno gli Stati Uniti a ravvedersi prima.
Il Canada, Paese con cui è di ieri la notizia dell’approvazione del Ceta, sarà uno dei Paesi con cui si intensificheranno gli scambi commerciali?
L’imprenditoria italiana ha dimostrato di saper stabilire relazioni di affari con tutti i paesi. Lo stesso Mezzogiorno d’Italia riesce a farlo, nonostante le sue debolezze. È la differenza profonda con la Grecia, che non vanta una pari presenza dell’Italia negli scambi internazionali. L’accordo con il Canada è controcorrente, ma penso che ne verranno altri. Il modello di sviluppo europeo è export-led (trainato dalle esportazioni) e la spinta del capitale e del lavoro frenerà la caduta degli scambi internazionali, se si affermano le politiche protezionistiche. Le obiezioni sono rivolte alla globalizzazione senza regole e sarebbe preferibile approvare queste, invece che chiudere le frontiere e tassare gli scambi. È un dibattito che gli economisti hanno fatto già due secoli orsono riguardante il commercio del grano. È una delle poche volte in cui una larga maggioranza è stata favorevole alla libera circolazione delle merci.
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