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TRASFERIRSI ALL’ESTERO TRA SOGNI E REALTA’

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Agosto è il periodo in cui molti ragazzi che sono all’estero per lavoro ritornano a casa per trovare parenti e amici; ho approfittato per discutere con alcuni di loro che risiedono a Berlino, della nuova vita all’estero fra difficoltà, sogni, ambizioni, delusioni, stato d’animo; riporto qui di seguito un riassunto. Non ho voluto di proposito dare un taglio “tecnico” all’articolo in quanto ho ritenuto fosse importante lasciare spazio all’emotività delle testimonianze.

 

Lasciare tutto, partire, seguire un sogno o semplicemente essere stanchi di tutto, così molti giovani sono partiti per altri Paesi dei quali il nostro sembra possa farne tranquillamente a meno. In questo modo l’Italia si impoverisce economicamente mentre altre realtà sociali raccolgono i frutti positivi che la nostra stanca Nazione con tanta fatica ha prodotto.
L’Italia sembra ormai un luogo dove per troppi la soluzione ai problemi dell’ordine del giorno è l’unico sforzo per il quale vale la pena pensare. Ciò che spesso si ignora sono le emozioni delle persone.

 

Ci si è mai davvero chiesti una persona che va all’estero cosa possa provare? Dietro a questa domanda c’è la risposta per la quale molti hanno deciso di partire, lasciare tutto, ma proprio tutto: famiglia, amici, comfort-zone, odori, colori, ma anche i riferimenti emotivi. Sì signori, non è il solo stipendio medio di 500 euro in più al mese a fare gola, ma il fatto che si è stanchi di sentire che tutto va male e andrà sempre peggio. Essere ignorati, parcheggiati in un lavoro spesso senza prospettiva, ritrovarsi con qualcuno a capo che è frustrato perché anche lui a suo tempo ignorato, semina nella testa di molti ambiziosi il desidero di cercare qualcosa di meglio per sé stessi.

 

Vivere all’estero è però molto difficile, la lingua è una vera barriera culturale la quale non permette di esprimere adeguatamente le proprie emozioni, infatti poi inizialmente c’è la solitudine perché in fondo nessuno ti ferma per la strada e ti chiede “vuoi essere mio amico?”, nel frattempo si accavallano problemi come la necessità di un alloggio, di un lavoro, di un conto in banca, di un’assicurazione sanitaria, etc. Superati questi scogli però, la sensazione è sempre la stessa, un peso sullo stomaco, una matassa sempre lì profonda che ti fa chiedere tutti i giorni se sia mai stata la scelta giusta. Il nuovo mondo spesso offre opportunità allettanti anche all’ultimo arrivato, sussidi per la famiglia, stipendi congrui agli sforzi fatti negli anni di studio, prospettiva di carriera e via dicendo. Non tutto però è regalato, la società ti accetta se alla società dai, al lavoro si lavora seriamente, le tasse si pagano e si attraversa la strada con il verde.

 

Una persona all’estero non odia la propria patria, vorrebbe tanto che non fosse andata cosi, che a casa propria non l’avessero giudicato per l’età per stabilire se fosse competente o meno e che qualcuno gli avesse dato la possibilità di dimostrarlo; quando ti presenti ad un colloquio di lavoro in Italia ti chiedono già esperienza per quel specifico ruolo, ma se nessuno te la fa fare?  Storie di chi ha provato a tornare raccontano di come anche un stipendio paragonabile ad un ottimo stipendio estero non sia sufficiente a farti accettare il disfattismo, il tirare a campare o la paura del capo che ti licenzia se non lavori più di lui. Quindi molti ripartono, si stancano di nuovo, ma questa volta probabilmente non torneranno mai più. Ed ecco che la vera “risorsa” è persa.

C’è bisogno di un cambiamento culturale, le persone devono uscire dal loro individualismo e concepirsi come all’interno di una comunità nella quale al centro siano gli esseri umani come tali e non come meri strumenti o semplicemente avversari, imparando a pensare in modo costruttivo e non recriminatorio, vivendo il presente e lasciando andare il passato. Il che vuol dire che le persone devono smetterla di dare la colpa ad altri per la propria difficile situazione e fare qualcosa per migliorarsi senza danneggiare il prossimo.
Al pari entra in gioco anche la responsabilità governativa di fare politiche per la famiglia e per un lavoro in cui la meritocrazia sia immediata. Una società per essere tale deve ascoltare i bisogni di tutti e credere in sé stessa.


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