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SVILUPPO: GOVERNO E OPPOSIZIONI CADONO DAL PERO? di Nino Galloni.

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Cadere dal pero: espressione popolare per indicare chi si meraviglia di una cosa risaputa. C’è meraviglia perché la stima Istat del terzo trimestre 2018 (luglio, agosto e settembre) riporta un brutto zero di crescita del PIL.

Conclusione: una piccola azione per il PIL (quale quella portata avanti dal governo e considerata esagerata dagli scienziati della Commissione Europea) determina un effetto trascurabile sul PIL stesso; un’azione ben più decisa determinerebbe un effetto adeguato.

Prima di vedere perché, una premessa: per i quattro anni passati, in cui una parte delle opposizioni assicura ci sia stata crescita, lo “sviluppo” è stato dello zero virgola; sono cresciute occupazione precaria e sottoccupazione, tanto per segnare che la produttività generale del sistema si è ridotta continuamente.

Fino a poco più di quarant’anni fa, un qualsiasi aumento delle spesa pubblica oltre le entrate (o disavanzo o deficit spending) generava un forte rimbalzo occupazionale ovvero di riassorbimento dei disoccupati; ad un certo punto, durante gli anni ’70, si notò che, oltre il 3,5% di crescita del PIL aumentava in modo più che proporzionale la importazione di materie prime energetiche: per questo, l’obiettivo “tipo” del governo – a quei tempi – era di mantenere la crescita del PIL adeguatamente sotto il 4%.

Da allora la importazione di prodotti energetici si è mantenuta stabile a circa 60 miliardi di euro all’anno: adesso è un trascurabile 3% del PIL, ma allora era il 25%. Inoltre, la dinamica della spesa pubblica in disavanzo e, quindi, l’arricchimento del Paese, portavano ad un aumento della domanda di prodotti di lusso e di importazione (gli operai cominciarono ad acquistare le Golf e i padroncini le Mercedes): quindi l’effetto sulla disoccupazione si riduceva e la classe politica – sbagliando – abbandonò la spesa pubblica produttiva in disavanzo per abbracciare le manovre di austerity e quant’altro (invece, si sarebbe dovuto rivisitare e non affondare il keynesismo – che tanto bene aveva fatto allo sviluppo della società – per adattarlo all’apertura delle economie).

Oggi i problemi sono diversi: nei comparti ad alta redditività (manifattura, energia, una parte dell’agricoltura e i servizi ad alto valore aggiunto) cala la domanda di lavoro; mentre, dove l’occupazione potrebbe salire vertiginosamente (servizi di cura delle persone, dell’ambiente e del patrimonio esistente dove avremmo bisogno di 7-8 milioni di addetti aggiuntivi) il costo supera il fatturato.

Se a ciò aggiungiamo che le opere pubbliche ed altri investimenti produttivi – per via dello stesso progresso tecnologico – stimolano meno occupazione aggiuntiva delle spese cosiddette assistenzialistiche (checchè ne dicano altre forze di opposizione) arriviamo a capire perché un piccolo aumento della spesa (in disavanzo) non produce effetti, mentre una forte spesa a deficit consentirebbe di colmare il gap fra costo e fatturato nei comparti a bassa redditività, ma di elevata necessità sociale.

Diciamo che, in passato, l’equazione dello sviluppo era lineare: l’effetto sul PIL della spesa pubblica in disavanzo era pari all’aumento di quest’ultima moltiplicato per un fattore (il moltiplicatore keynesiano che oscillava intorno al 3). Oggi non è lineare: ad un piccolo aumento della spesa in deficit (sotto il 3-4%), l’effetto sul PIL è trascurabile; mentre, con un aumento consistente, l’effetto sarebbe talmente potente da consigliarne una pronta riduzione appena gli investimenti privati produttivi si riattivassero in modo massiccio (ovviamente, servirebbero banche di credito e/o moneta fiduciaria come furono – ai tempi del miracolo economico italiano – le cambiali).

Un forte deficit pubblico è osteggiato dall’Unione Europea? Beh, questo governo ha fatto capire che l’obiettivo è diventato la crescita del PIL (su questo “i mercati” sono logicamente favorevoli) e non più il risanamento dei conti pubblici che determina esattamente il contrario: cioè, come è accaduto nei decenni passati, calo del PIL e peggioramento degli stessi conti pubblici in una catena avvilente e preoccupante. Per l’attuale governo, i conti pubblici in ordine sono un vincolo: pertanto se la manovra non dovesse produrre la crescita del PIL necessaria (1,4-1,5%), quel piccolo disavanzo del 2,4, per non essere superato, richiederà un taglio della spesa pubblica programmata; infatti, se il denominatore della frazione (il PIL) non cresce abbastanza, il numeratore (la spesa) deve ridursi rispetto al programmato.

Quindi, ci sono due strade: una manovra più espansiva a parità di tutto il resto; l’emissione di moneta sovrana parallela (non impedita dal Trattato di Lisbona che si occupa di banconote – non statonote – aventi corso legale in tutta l’Unione, mentre i biglietti di Stato varrebbero solo all’interno del territorio nazionale ed avrebbero lo stesso segno algebrico delle tasse, quindi non creando ulteriore debito, ma, al contrario, riducendolo).

Nessuna di queste due soluzioni (o un qualsiasi mix di esse) farebbe felice chi vuole l’Italia sottomessa e debole; tuttavia, siccome ritengo ormai satura la situazione sociale ed economica, qualcuno vuol vedere l’Italia fuori controllo e ingovernabile? Comunque, salterebbe l’euro e, allora, la domanda è: sarà sufficiente arrivare alle prossime elezioni europee?

Riuscirà il governo a tenere in pugno la situazione fino ad una svolta consistente nel considerare obiettivi di benessere della popolazione e i conti pubblici (una buona e sana tenuta di essi) conseguenza del benessere sociale? Infatti, oggi, essi sono la spia del malessere; quando la politica economica – che ha timidamente iniziato con questo governo il cambiamento – completerà la sua necessaria parabola, i conti pubblici a posto saranno l’indicatore di una situazione sociale ed economica sostenibile.

Nino Galloni


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