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SULLE PRIVATIZZAZIONI DOBBIAMO INVERTIRE LA ROTTA Perché le privatizzazioni hanno rovinato la nostra economia? Perché si fanno? Quale funzione hanno? Occorre prima comprendere le ragioni del declino industriale italiano per potervi porre rimedio. (di Luca Pinasco)

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Perché le privatizzazioni hanno rovinato la nostra economia? Perché si fanno? Quale funzione hanno?
Occorre prima comprendere le ragioni del declino industriale italiano per potervi porre rimedio.

Il processo di “privatizzazione” è un meccanismo attraverso il quale la proprietà di un ente o di un azienda
viene spostata dallo Stato al privato attraverso la cessione, in tutto o in parte, di quote di proprietà dello
stesso. Oltretutto la privatizzazione può essere di tipo “formale” ovvero il mutamento dello status giuridico
di un ente o azienda pubblica, in una delle svariate forme che può assumere un soggetto di diritto privato.
Questa fase del processo di privatizzazione è stata avviata dal governo Amato con il decreto del 1992 n° 333
il quale ha trasformato in S.p.A le aziende strategiche di Stato tra cui IRI, ENI, INA ed ENEL, stessa sorte
toccata successivamente ad altre grandi società e a taluni istituti bancari.
Poi a quello formale segue il processo di privatizzazione “sostanziale” ovvero il reale passaggio della
titolarità della proprietà e di conseguenza del potere di controllo dalla mano pubblica a quella privata.
Questa seconda fase di privatizzazione in alcuni casi è stata completata in altri è ancora in itinere, come ad
esempio nel caso dell’ENI. Per mantenere poteri particolari di intervento e di veto a favore dello Stato vista
la delicatezza del settore in cui opera l’azienda privatizzata si applicava l’istituto della “golden share“,
notevolmente ridimensionato dal governo Monti il 9 marzo 2012 attraverso la rimozione di tale istituto
dallo statuto delle società e la subordinazione dell’applicazione dei suoi contenuti ad un decreto del
Presidente del Consiglio. Il processo di privatizzazione delle grandi aziende di Stato trovò enormi ostacoli
politici sin dal suo inizio. La svolta si ebbe però con i processi di “Mani Pulite” che eliminarono di fatto i
maggiori ostacoli politici. In teoria i vantaggi che si traggono dallo strumento della privatizzazione sono:
-Ridurre le spese di mantenimento e sviluppo da parte dello Stato.
-Rimediare all’inefficienza della gestione pubblica affidandola al privato che per sua intrinseca caratteristica
si affida alla legge del profitto e della concorrenza, dunque sarà necessariamente indotto all’efficienza, alla
dinamicità ed al miglioramento dei servizi offerti.
-Ridurre il debito pubblico mediante gli incassi derivanti dalla privatizzazione.
Riguardo i primi due punti c’è da dire però che l’aumento dell’efficienza del privato corrisponde
inevitabilmente a tagli di rami d’azienda, tagli del personale, operazioni che il proprietario pubblico spesso
non effettua per motivi legati al mantenimento dei posti di lavoro o meramente al consenso elettorale. Ad
esempio nel caso dell’ENI, nonostante sia stata una delle pochissime privatizzazioni riuscite dal punto di
vista finanziario (ovvero con titoli azionari che hanno reso in media più dei titoli di Stato dal momento della
privatizzazione), vi è stato un innegabile calo occupazionale dal momento in cui è iniziata la gestione
privata, si è infatti passato dai 128.000 dipendenti del 1992 ai 33.000 dipendenti odierni.
Per quanto riguarda il terzo punto, la crescita del rapporto debito pubblico/PIL con le privatizzazioni si è
arrestata nel breve termine, ma nel medio termine ha ricominciato a crescere a causa di altri fattori
macroeconomici quali: la scarsa crescita del PIL , la crisi economica, le politiche di austerità e la scarsa
consistenza dell’entrata derivante dalla privatizzazione rispetto allo stock del debito pubblico. Riguardo
quest’ultimo punto bisogna aggiungere che dalla privatizzazione risulta un stock in entrata (una quantità in
ingresso statica, immediata ed unitaria) ma si rinuncia ai considerevoli dividendi, derivanti dalla proprietà di
azioni delle società privatizzate, i quali avrebbero permesso di recuperare il ricavato della vendita delle

stesse quote azionarie nel giro di qualche anno. Di contro, rispetto a quest’ ultima affermazione si potrebbe
osservare che senza la privatizzazione, le grandi società pubbliche non avrebbero distribuito livelli così
elevati di dividendi, avendo una gestione non orientata al beneficio degli investitori prima del 1995. Ma ciò
porta a due considerazioni. La prima è che tali lauti dividendi sono stati distribuiti non allo Stato, bensì ai
nuovi proprietari, spesso società finanziarie o fondi d’investimento esteri. La seconda è quella di capire da
dove siano derivati tali utili e se a tale beneficio degli investitori è corrisposto un beneficio ai consumatori e
alla collettività. A tal proposito, chiusa la stagione delle privatizzazioni, il 10 febbraio 2010 la Corte dei Conti
ha pubblicato uno studio all’interno della quale elabora la propria analisi sull’efficacia di tale strumento. Il
giudizio presenta evidenti note negative. Viene riscontrato che si è verificato un aumento della redditività
delle aziende privatizzate e dei dividendi distribuiti, dovuto però, in specie nel secondo decennio “non alla
maggiore efficienza quanto piuttosto all’incremento delle tariffe al quale non ha fatto seguito alcun
progetto di investimento volto a migliorare i servizi offerti”.
Ma al di là delle ragioni economiche, vi sono ragioni strategiche ben più gravi. Con le privatizzazioni delle
grandi aziende pubbliche viene meno una ulteriore sovranità in capo allo Stato, ovvero la possibilità di
gestire la propria politica industriale. Oltretutto queste sono spesso aziende ad alto contenuto tecnologico,
proprietarie di infrastrutture fondamentali alla vita del paese e la loro cessione a soggetti stranieri crea
inevitabilmente delle falle tanto nella difesa nazionale quanto nel nostro patrimonio di conoscenze con
conseguenti cali occupazionali nei settori altamente specializzati. L’utilizzo spropositato dello strumento
della privatizzazione rientra in un disegno ben preciso, mirato a ridurre drasticamente la potenza
economica italiana, manifestatasi dal dopoguerra alla fine degli anni ’80 proprio attraverso la
partecipazione dello Stato all’economia. Tale disegno risulta evidente se si osserva come le privatizzazioni
sono state messe in atto. Non appena rimosso l’ostacolo politico con “mani pulite”, furono decise il 2
giugno del 1992 a bordo del panfilo Britannia ed attuate con la consulenza di banche d’affari quali J.P.
Morgan e Goldman Sachs a prezzi scontati grazie alla speculazione e alla conseguente svalutazione della lira
nel settembre del 1992. Occorre prima comprendere le ragioni del declino industriale italiano per potervi
porre rimedio. L’attuale Governo dovrebbe valutare l’idea di fare passi indietro nel processo di
privatizzazione, dapprima smettendo di cedere quote azionarie delle aziende strategiche, per poi invertire
la rotta iniziando a riacquistarle.


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