Europa
Stati Uniti e divieto d’ingresso a Breton: regolazione del digitale, libertà di espressione e potere discrezionale (di Antonio Maria Rinaldi)
Il provvedimento contro l’ex Commissario europeo non è un caso isolato, ma l’apice della tensione tra il modello “free speech” americano e le regole del Digital Services Act. Ecco cosa c’è dietro lo strappo diplomatico.

La decisione delle autorità statunitensi di negare l’ingresso negli Stati Uniti a Thierry Breton, già Commissario europeo con deleghe chiave su mercato interno, industria e politiche digitali, ha assunto rapidamente un valore che travalica il singolo episodio personale. Il provvedimento, pur rientrando formalmente nella piena sovranità statale in materia di controlli alle frontiere, si inserisce in un contesto di crescente attrito politico e concettuale tra Washington e Bruxelles sul governo dello spazio digitale globale.
Il nodo centrale non riguarda tanto la legittimità giuridica dell’atto in sé, quanto il suo significato politico. La misura appare come un segnale indirizzato a un modello regolatorio specifico, più che a una persona, e riflette una divergenza strutturale tra due visioni del rapporto fra libertà di espressione, potere pubblico e responsabilità delle piattaforme.
Perché Breton è diventato un simbolo
Nel corso del suo mandato, Breton è stato una delle figure più esposte e riconoscibili dell’approccio europeo alla regolazione delle grandi piattaforme digitali. Il suo ruolo nella promozione e nell’attuazione del Digital Services Act e del Digital Markets Act, unito a una comunicazione pubblica spesso diretta e assertiva nei confronti dei grandi operatori tecnologici, lo ha reso il volto di una strategia europea ambiziosa e, per alcuni osservatori, particolarmente incisiva.
In questa chiave, il divieto d’ingresso assume una valenza simbolica: non una sanzione individuale, ma un messaggio politico rivolto all’architettura normativa europea e alla sua proiezione oltre i confini dell’Unione.
Le ragioni statunitensi: un’analisi non ideologica
Letta in modo analitico e super partes, la posizione degli Stati Uniti può essere ricondotta a quattro ordini di motivazioni.
- La tutela del paradigma della libertà di espressione.
Negli Stati Uniti la libertà di parola è protetta in modo estremamente ampio, anche quando riguarda contenuti controversi, polarizzanti o potenzialmente dannosi. In questo contesto, normative che impongono obblighi di moderazione, valutazioni di rischio o rimozioni accelerate vengono talvolta percepite come strumenti che, seppur indirettamente, possono comprimere il dibattito pubblico.
- Il timore dell’effetto extraterritoriale
Molte delle piattaforme interessate dalla normativa europea hanno sede negli USA. Da qui la preoccupazione che decisioni assunte da autorità europee possano influenzare, di fatto, standard globali di moderazione dei contenuti, incidendo su dinamiche comunicative che vanno oltre il mercato europeo.
- La dimensione economica e industriale
La regolazione UE incide soprattutto su grandi operatori statunitensi. In un quadro di competizione tecnologica e geopolitica, ciò viene talvolta letto come un elemento di frizione che tocca anche interessi industriali e strategici.
- Il segnale diplomatico
Colpire una figura di alto profilo rappresenta una forma di pressione mirata: più incisiva di una protesta formale, ma meno radicale di uno scontro commerciale o normativo aperto. È una scelta che segnala dissenso senza chiudere del tutto i canali di dialogo.
La posizione europea: sovranità normativa e mandato democratico
Dal lato di Bruxelles, la risposta si articola lungo tre direttrici principali.
- In primo luogo, l’Unione rivendica il diritto di regolare il proprio mercato interno e lo spazio digitale in cui operano soggetti economici che traggono beneficio dall’accesso a centinaia di milioni di utenti europei.
- In secondo luogo, la Commissione sottolinea la distinzione concettuale tra censura e regolazione: le norme europee non mirano a colpire opinioni o orientamenti politici, ma a imporre obblighi procedurali, di trasparenza e di gestione dei rischi, con riferimento a contenuti già qualificati come illegali dal diritto vigente.
- Infine, il gesto statunitense viene interpretato come una forma di pressione politica nei confronti di un modello regolatorio che l’UE considera espressione di una scelta democratica e legittima.
Il punto sensibile: la discrezionalità applicativa
È tuttavia su questo terreno che emerge l’area grigia più rilevante del confronto.
La normativa europea sul digitale, pur fondata su testi giuridici articolati, richiede un’intensa attività di interpretazione e applicazione da parte delle istituzioni e delle autorità competenti. Concetti come “rischio sistemico”, “disinformazione dannosa” o “misure di mitigazione adeguate” non sono sempre traducibili in criteri automatici: implicano valutazioni, priorità e giudizi discrezionali.
In questo senso, il dubbio sollevato da parte statunitense — ossia che tali strumenti possano, nella pratica, generare effetti assimilabili a forme di censura — non può essere escluso a priori. Un ampio potere discrezionale, anche quando esercitato con finalità di tutela collettiva, comporta il rischio di applicazioni non uniformi e di comportamenti difensivi da parte delle piattaforme, che potrebbero optare per rimozioni preventive pur di evitare sanzioni.
Due modelli di rischio
Il contrasto transatlantico riflette, in ultima analisi, una diversa gerarchia dei rischi.
Negli Stati Uniti prevale il timore dell’intervento pubblico sul discorso come minaccia strutturale alla libertà individuale. Nell’Unione europea, invece, il rischio percepito è quello di un vuoto regolatorio in uno spazio dominato da pochi attori privati dotati di un potere informativo senza precedenti.
Entrambe le impostazioni sono coerenti con le rispettive tradizioni giuridiche e politiche. La tensione nasce quando una di esse tende a produrre effetti che travalicano i propri confini.
Il banco di prova della democrazia
Il caso Breton non è soltanto un episodio diplomatico, ma un banco di prova per il rapporto tra democrazie occidentali nell’era digitale. La sfida comune resta quella di governare uno spazio informativo globale senza sacrificare né la libertà di espressione né la capacità delle istituzioni di intervenire contro rischi reali. Il confronto, se condotto con lucidità e senza semplificazioni ideologiche, potrebbe trasformare una frattura in un’occasione di chiarimento sui limiti e sulle responsabilità del potere regolatorio pubblico.
Antonio Maria Rinaldi ex membro della commissione ECON – Parlamento Europeo
Domande e risposte
Perché gli Stati Uniti hanno negato l’ingresso a Thierry Breton? La decisione non riguarda tanto la persona quanto il simbolo politico che Breton rappresenta. Le autorità statunitensi vedono nel suo operato, e in particolare nell’attuazione del Digital Services Act, una minaccia al modello americano di libertà di espressione. Il diniego è un segnale diplomatico forte contro l’approccio regolatorio europeo, percepito come potenzialmente censoreo e dannoso per gli interessi industriali delle grandi piattaforme tecnologiche statunitensi, che temono l’applicazione extraterritoriale delle norme UE.
Esiste un rischio reale di censura nelle normative europee? Sebbene l’UE dichiari di voler colpire solo contenuti illegali e non opinioni, il rischio esiste nella fase applicativa. Termini vaghi come “rischio sistemico” o “disinformazione” lasciano ampio margine di discrezionalità alle autorità e alle piattaforme stesse. Il timore, condiviso dagli USA, è che per evitare sanzioni pesanti, i social network inizino a rimuovere preventivamente contenuti controversi ma legittimi, restringendo di fatto il perimetro del dibattito pubblico e scivolando in una forma di censura indiretta.
Qual è la differenza fondamentale tra l’approccio USA e quello UE al digitale? La divergenza è filosofica e riguarda la gerarchia dei rischi. Per gli Stati Uniti, il pericolo maggiore è l’interferenza dello Stato nella libertà di parola dei cittadini (approccio libertario). Per l’Unione Europea, il pericolo maggiore è il potere incontrollato di attori privati monopolistici che possono influenzare la democrazia e il mercato senza regole (approccio regolatorio keynesiano). Washington teme lo Stato “padrone”, Bruxelles teme il Mercato “giungla”.







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