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Crisi

LA SPESA PUBBLICA NELL’ECONOMIA

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C’è chi vede la spesa pubblica come il motore con cui lo Stato può indirizzare l’economia verso la prosperità e chi la vede come una sanguisuga che dissangua il Paese. E infatti, quando si discute di come si potrebbe uscire dalla crisi – rilanciando l’economia e l’occupazione, come suona la giaculatoria – i partecipanti alla discussione si dividono. C’è chi invoca maggiori investimenti dello Stato, anche se non si sa con quali soldi, e chi sogna che lo Stato si faccia una buona volta da parte, lasciando respirare chi lavora e produce ricchezza. Ma bisogna tenersi lontani dalle posizioni troppo nette. Il Capitalismo di Stato e il Capitalismo Selvaggio sono ambedue soluzioni nocive.

La prima domanda da porsi, in materia di spesa, è se si spenda denaro proprio o altrui. Qualcuno ha infatti formulato un’eccellente teoria, al riguardo. Chi spende denaro proprio nell’interesse proprio cerca di avere il meglio al minor prezzo. Chi spende denaro proprio nell’interesse altrui cerca di fare la migliore figura al minor prezzo: è lo schema del regalo. Chi spende denaro altrui nell’interesse proprio cerca di avere il meglio a qualunque prezzo. Infine chi spende denaro altrui nell’interesse altrui – ed è il caso di chi opera a nome dello Stato – cerca di fare non importa che cosa a non importa quale prezzo, purché gliene venga un’utilità: che sia semplice visibilità, successo elettorale, qualche regalo o perfino vantaggi monetari (corruzione).

Chi agisce per lo Stato – i cui soldi non hanno un vero sorvegliante – dovrebbe avere infinitamente più scrupoli di chi spende per sé: e invece la tendenza è quella di non badare al conto che infine viene mandato ai contribuenti. Si tratta infatti di denaro altrui nell’interesse altrui. Proprio per questo, soprattutto se il livello morale medio della nazione non è altissimo, bisognerebbe limitare al minimo l’esborso dello Stato.

La distinzione essenziale è tuttavia un’altra: quella fra spese buone e spese cattive. Immaginiamo un ricco signore che, impietosito dalle condizioni dei disoccupati, ne assuma dieci, assegnando loro il compito di riempire dei secchi d’acqua di mare, per andarli a riversare, sempre in mare, cento metri più lontano. Indubbiamente gli uomini lavorano, indubbiamente non sono più disoccupati e indubbiamente alla fine della giornata sono retribuiti: ma è una buona spesa? Francamente no. Se quel signore voleva fare beneficenza, non c’era ragione che facesse affaticare quei padri di famiglia. Bastava desse loro quel denaro come sussidio di disoccupazione: perché la loro fatica non ha prodotto alcuna ricchezza.

Molto peggiore è il caso in cui lo stesso lavoro sia organizzato dallo Stato. Il ricco signore infatti usa, seppure in modo stupido, denaro proprio, mentre se i lavori denominati pomposamente “socialmente utili” sono organizzati dallo Stato, di fatto sono pagati col denaro dei contribuenti. Cioè con denaro sottratto a chi ha prodotto ricchezza. Se un “consulente” non serve niente, nella Regione Siciliana, siamo vicini al peculato.

Il discorso naturalmente cambia del tutto se, invece di spostare acqua dal mare al mare, i dieci lavoratori costruiscono un asilo nido. In questo caso in linea di principio la spesa non è cattiva. Ecco il discrimine: è buona la spesa che produce un bene o un servizio per avere il quale qualcuno sarebbe disposto a pagare, mentre è cattiva quella per la quale nessuno pagherebbe nulla e che si risolve in un beneficio per qualcuno.

 Tuttavia l’iniziativa dello Stato dovrebbe essere limitata anche quando si propone di produrre beni o servizi per i quali i cittadini sono disposti a pagare. Infatti la Pubblica Amministrazione ha una bassa produttività e spesso i suoi costi sono superiori ai ricavi. Si pensi alle ferrovie. Ogni volta che qualcosa può essere fatta dallo Stato o dai privati, i privati possono farla a miglior prezzo: non è un principio, è una constatazione.

Ecco perché è follia sperare che lo Stato rilanci l’economia. Il meglio che esso possa fare è pesare di meno e lasciare agire gli altri.  Una pressione fiscale del cinquanta e passa per cento non è soltanto una palla al piede dell’economia: è un attentato alla democrazia e alla libertà dei cittadini.

Gianni Pardo, [email protected]

4 agosto 2014


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