Attualità
Sono un avvocato, non sono un algoritmo
Sono un avvocato, non sono un algoritmo. Questa precisazione, all’apparenza lapalissiana, potrebbe diventare in futuro doverosa per qualsiasi esercente la professione legale. Anzi, per quei pochi che riusciranno a sopravvivere all’invasione degli algoritmi. Di che stiamo parlando? Di un software di nuova generazione il quale inaugurerà l’era della giustizia “predittiva”: sapere prima come finirà una controversia, cosa deciderà un giudice, insomma dove penderà il piatto della proverbiale bilancia. Così da risparmiarsi anni di noie, carte bollate, crisi di nervi e – ovviamente, va da sé, e soprattutto – spese legali. Con buona pace dei legali, appunto, i quali potranno magari riciclarsi come programmatori o manutentori di questa fantastica matrice previsionale delle chance di “vittoria”.
Il nuovo “mezzo” è stato messo a punto su iniziativa della Corte d’Appello di Venezia, in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari e con il dipartimento di intelligenza artificiale di Deloitte e sarà presentato il primo di febbraio. Nelle intenzioni dei suoi artefici dovrebbe rappresentare una sorta di “palla di vetro” in silicio in grado di prevedere con stupefacente (inquietante) precisione l’esito di un processo. A quel punto, molti potenziali fruitori del sistema processuale – e cioè molte persone convinte di aver subito un torto e confidanti in una riconoscibile ragione – potrebbero (dovrebbero) essere scoraggiate prima ancora di iniziare la battaglia. Con conseguente sollievo per il super lavoro da cui sono, si dice, oberati i magistrati, le cancellerie e l’universo mondo cui compete l’improbo compito di “rendere giustizia”.
Ora, ferma la buona fede di chi ha ideato il progetto, non possiamo non rimarcarne gli enormi rischi. Soprattutto se siamo avvocati e non algoritmi. Il rischio fondamentale – per meglio dire, l’errore fondamentale – sta nella riduzionistica equiparazione tra “prevedibilità scientifica” e “verità processuale”. Nell’idea preconcetta, e fuorviante, che il processo sia una “materia” suscettibile di essere “matematizzata” e “geometrizzata” in forme rigide, algide, e quindi predicibili. Quindi, in linee così “rette”, da poter essere digerite da un programma informatico e restituite sotto forma di “anticipazione” del prossimo verdetto.
Sennonché, questa visione è antitetica a ciò che il processo è: vale a dire un rito destinato a ridurre (senza mai riuscirvi) lo iato tra il fatto e la norma. E, in questo conato titanico, c’è una funzione infungibile. Ed è una funzione esercitabile solo da un uomo, mai da una macchina. Perché richiede la sensibilità, il sapere, l’esperienza, l’umiltà e anche la presunzione, di capire che ci sono moltissime battaglie apparentemente, “prevedibilmente”, perdute che meritano tuttavia di essere combattute. E sperabilmente vinte. Moltissime sfumature di grigio tra il bianco e il nero del linguaggio binario di un elaboratore.
La storia stessa della giurisprudenza è piena di “revirement”, di mutamenti radicali, a centottanta gradi, di un orientamento giurisprudenziale che si riteneva granitico. Dove il software in questione vi avrebbe certamente suggerito di alzare le mani in segno di resa. E a quei mutamenti, la Cassazione è giunta perché qualcuno ci ha creduto, a dispetto di ogni previsione contraria. E ciò è accaduto per merito (o colpa) dell’imprevedibile granello umano nella macchina. Ebbene, quel granello si chiama avvocatura. E ogni passo in avanti sulla strada di una giustizia più giusta – diciamo pure di un ulteriore, benché infinitesimale, aggiustamento rispetto ai dettati della nostra Suprema Carta – è avvenuto grazie ad avvocati “riottosi”. Che hanno saputo intravedere lo spiraglio per rivoluzionare, magari per sempre, un convincimento, come usa dire, “consolidato”; ma sbagliato.
Tra l’altro, i promotori di questa “riforma” non considerano l’implicito paradosso; e cioè che le cause seguiteranno ad avere lo stesso conto finale in pareggio: metà verranno vinte e metà verranno perse. Quindi, comunque, il favoloso strumento (ove usato da tutti) sbaglierà almeno il cinquanta per cento delle volte. Ma il punto vero è un altro. Pensiamo – perché siamo avvocati e non algoritmi – che questo nuovo “Terminator” giudiziale prefiguri un futuro affatto desiderabile. Ma non solo per noi, si badi bene.
Certo, questa via di mezzo tra un Golem e Cassandra condurrà a meno cause perché un potenziale cliente si farà persuadere (demoralizzare) da una intelligenza artificiale. Potrà tradursi in un “risparmio” di incombenze, di fastidi, in definitiva di lavoro per i Tribunali. Potrà anche implicare una riduzione dell’importanza, del ruolo, del prestigio, e dei guadagni, per gli avvocati. Ma gli applausi finiscono qui. Perché, si risolverà – soprattutto e prima di tutto – in una minore possibilità di giustizia per tutti.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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