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SINTOMATICO E TERAPEUTICO

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La corruzione non si sconfigge con gli arresti, ma eliminandone l’occasione

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Ognuno ha i suoi gusti, ma alcuni sono profondamente annoiati dalla cronaca nera. Con qualche ragione. Contro la violenza individuale spicciola, o contro la corruzione di un singolo vigile urbano, non c’è nulla da fare. E  dunque è inutile parlarne, si tratta di fatti inevitabili e banali. Viceversa si può lottare contro le organizzazioni mafiose, contro le centrali del terrorismo o contro la pirateria ed è utile discuterne. Perché ci sono in questo caso problemi di diritto internazionale, di rapporti fra Stati e di competenza a giudicare gli eventuali illeciti.

In Italia siamo sommersi da una marea di iniziative della magistratura penale che inducono a pensare che praticamente tutti coloro che occupano un posto di rilievo nell’amministrazione pubblica siano dei delinquenti. Basta aspettare e arriverà anche il loro turno. La cronaca fornisce armi agli imbecilli indignati in servizio permanente e ciò alimenta il moralismo da strapazzo e le tesi sfasciste. Non si capisce che l’élite è formata da una parte di quello stesso popolo che la stramaledice. I molti che invocano il cappio non sono migliori degli accusati: loro dicono di non aver peccato  ma nulla prova che, subendo la tentazione, sarebbero rimasti casti.

Della cronaca nera val la pena di occuparsi quando ci si pone il problema non di punire un dato reato, ma quando ci si chiede se e come si può combattere il male alla radice. L’arresto del singolo sta al tentativo di eliminare l’illegalità come il farmaco sintomatico sta al farmaco terapeutico. Il primo pone rimedio alle conseguenze immediate di un singolo caso, e ciò serve a poco. Bisogna piuttosto chiedersi quale sia la causa della malattia e se esista una cura.

La corruzione italiana è male endemico. Passano i decenni e sempre si riscopre di essere al punto di partenza. Prima dell’inizio degli Anni Novanta la corruzione era sistematica e organizzata: tot alla Dc, tot al Pci, tot al Psi, per ogni appalto. Poi si è creduto di dare un violento colpo di ramazza, fino a stroncare il male alla radice (Davigo parlava di “rivoltare l’Italia come un calzino”), e infine, nel 2014, siamo al punto di partenza con l’Expo di Milano. In qualche caso, con gli stessi protagonisti di un tempo.

Il male dell’Italia è il basso livello morale della nazione: attenzione, non dell’élite, della nazione. E il problema diviene drammatico quando l’argine dovrebbe essere l’etica. Nei rapporti privati la mancanza di scrupoli incontra un freno negli interessi della controparte, quando invece si tratta di soldi dello Stato può avvenire – ed avviene – che chi vorrebbe rubare e chi dovrebbe difendere l’erario trovino più conveniente spartirsi l’utile piuttosto che farsi la guerra. Come se i Carabinieri facessero da palo in occasione di un furto. Per quanto orribile sia il quadro, indignarsi non serve a niente. La domanda è: c’è un rimedio che non sia semplicemente sintomatico?

La soluzione più semplice e radicale è far sì che non ci sia nulla da rubare. Ciò non solo fa venir meno l’interesse ad associarsi, ma rende lo stesso furto impossibile. E così si giunge ancora una volta alla solita conclusione: lo Stato dovrebbe occuparsi di un numero inferiore di cose.  Se in giro ci fosse meno denaro dello Stato, ci sarebbero meno occasioni di corruzione. Ciò che ad essa dà una così lunga vita è il fatto che il denaro dell’erario è denaro di nessuno. E comunque non ha un padrone in carne ed ossa pronto ad intervenire per difendere il suo: deve contare sulla correttezza dei suoi funzionari.

Naturalmente rimane il problema di come attuare questa politica. Alcune cose lo Stato potrebbe non farle e basta, lasciandone la cura, i costi e gli eventuali ricavi ai privati. Per altre potrebbe adottare strategie diverse: ad esempio pubblicare il progetto dettagliatissimo di un edificio scolastico, lasciare che le imprese facciano un’asta fra loro, e infine comprarlo una volta che sia stato costruito. Senza revisioni dei prezzi, senza accettare ricorsi, senza nulla concedere: il rischio dovrebbe essere interamente a carico dell’impresa che ha vinto l’appalto e questa dovrebbe anche contrarre un’assicurazione che assicuri il completamento dell’opera in caso di fallimento dell’aggiudicatario. È probabile che i competenti saprebbero suggerire soluzioni migliori, l’essenziale è che lo Stato sia disposto a pagare il “prix fort”, il prezzo pieno, anche con un 10% in più, piuttosto che realizzare opere che finiscono col costare scandalosamente più del previsto, e per giunta con anni ed anni di ritardo.

L’essenziale non è reprimere la corruzione, ma toglierne l’occasione. Diversamente, come c’è stata in passato, ci sarà anche in futuro.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

11 maggio 2014


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