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SI FANNO CHIAMARE PROGRESSISTI, MA SONO S OLO RIBASSISTI di Luigi Luccarini.

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Non so a voi, ma a me sembra evidente cosa sta succedendo sui mercati internazionali al punto che sono portato a credere che questi e i prossimi mesi potrebbero davvero diventare determinanti per gli equilibri politici ed economici dell’intero pianeta.

E che sia in corso una strenua battaglia tra coloro che vogliono conservare l’attuale assetto dei rapporti – e che per paradosso continuano a volersi (far) chiamare “progressisti” – e chi aspira alla creazione di un nuovo ordine mondiale, per lo più, come vedremo, di stampo realmente liberale, ma non nel senso strettamente mercantile del termine.

Ragioniamo per gradi.

E’ un fatto che l’economia mondiale, dopo il brusco rallentamento estate/autunno 2018 è in fase di (almeno tendenziale) ripresa.

Che poi si tratti di un semplice “rimbalzo” nell’ambito di un trend ciclico che inizia a diventare discendente, a quasi 50 anni dalla fine di Bretton Woods, oppure dell’avvio di una nuova fase di crescita duratura è ancora tutto da scoprire.

E’ un fatto però che l’economia che verrà non sarà più quella che abbiamo conosciuto negli ultimi 20 anni e che con il mantra della ”globalizzazione” ha mascherato un progressivo tentativo di “sovietizzare” popoli e nazioni.

Per ricondurli ad un’obbligata unità di intenti, dietro falsi miti ideologici (la “sinistra”, le “minoranze”, i “diritti sociali” i “migranti”, ecc.) in realtà strumenti di una colossale mistificazione, di stampo realmente Orwelliano, che ci ha irregimentato tutti agli ordini di sigle (FMI, OCSE, EU, BCE, ecc.) che dettano regole di comportamento non in senso etico (quelle sarebbero ancora accettabili) ma economico.

Poiché però l’economia non è una scienza esatta, è chiaro che questo voler imporre un’ortodossia di norme sta solo a significare l’esistenza di rapporti di forza, in campo politico e sociale, che hanno promosso determinati ceti ed individui ad un ruolo egemonico e che la difesa di quelle prerogative avviene – da tempo ormai – non mediante confronto con il “mercato”, ma con la vecchia e sana (si fa per dire) arma del ricatto.

Non ti adegui alle nostre “raccomandazioni”? Beh faremo in modo di spedirti nel gulag dello spread alto.

Cerchi di muoverti in modo più autonomo dei margini che ti abbiamo concesso? Ti scagliamo contro il nostro KGB, vale a dire tutto il mondo dell’informazione.

E in campo microeconomico: non accetti le nostre condizioni contrattuali? Ti tagliamo fuori dalla filiera.

Non ti rassegni ad un salario così basso o a mansioni dequalificanti? Ti licenziamo senza problemi.

Una cosa del genere, è chiaro, ha un senso soltanto se tutti gli attori principali di questa commedia sono concordi nel recitare ciascuno la parte che gli è stata assegnata all’interno del copione.

Che poi è piuttosto elementare da imparare a mente.

Esempio: scoppia una crisi planetaria, a causa di una decisione assunta per motivi politici (il mancato sostegno a Lehman Bros, che avrebbe salvato la banca, fu osteggiato dai Dem americani, a costo di generare così la più profonda crisi economica mondiale del dopoguerra). A quel punto ecco che, con precisa operazione di marketing, si fa spuntare fuori il personaggio perfetto per circuire le masse, deluse ma non ancora del tutto pentite.

Ed ecco Obama che, più o meno come a chiunque sarebbe riuscito, eredita macerie e sfruttando la forza di un rimbalzo del ciclo economico quasi inerziale le rimette un po’ in piedi. Regalando alla classe media e ai ceti più poveri l’illusione di un cambiamento, ma in realtà finendo per consolidare quegli assetti di potere già forti (e fortemente colpevoli) che proprio grazie alla crisi hanno aumentato il loro potenziale.

Una strategia di questo genere avrebbe potuto funzionare per altri 4, forse anche 8 anni se Hilary Clinton avesse vinto le presidenziali USA del 2016.

La signora Clinton non è il signor Clinton, che a suo modo si comportò da innovatore, ma un perfetto automa, molto più somigliante ad altri personaggi che dominano il palcoscenico di questi anni.

Draghi, Lagarde, Juncker, Tajani un qualsiasi tedesco che operi nella stanza dei bottoni. O i politici che ancora vediamo nel panorama di casa nostra: non faccio nomi, è sufficiente guardare i canali TV mainstream per rendersi conto a chi mi riferisco. Un indizio: tutti quelli che si riempiono la bocca con la parola “investimenti”, come un mantra, l’ennesimo, senza peraltro capire che un investimento è regolato dalla legge dell’efficienza marginale e va misurato con serie analisi costi/benefici

“Burocrati” è il modo perfetto per definire questi soggetti.

Che, in base alla definizione che del termine dà la Treccani, identifica coloro che svolgono una funzione pubblica, quindi nell’interesse di tutti, “con formalismo eccessivo e gretto”.

Perché per loro la regola prima è mantenere in vita la sovrastruttura esistente (per usare un vecchio ma sempre utile termine marxiano) ed immanente su tutti noi e di cui loro sono una specie di “guardiani”.

Invece vince Trump, l’uomo che nessuno, anche chi in cuor suo ne condivide le idee di fondo, sente di poter sostenere fino in fondo. Perché è tutto all’opposto dell’iconografia del “potente” che siamo ormai abituati ad ammirare e temere. O almeno così ce lo hanno raccontato.

Ed è anche per questo che finisce per sparigliare le carte, anzi a mandarle proprio quarantotto.

Trump è stato per molto tempo protagonista nel business della comunicazione, perciò ne conosce a fondo le regole e le usa rivolgendole contro i suoi avversari che controllano la quasi totalità dei media. In qualche modo finendo per delegittimarli mano a mano che aumenta il loro grado di aggressione nei suoi confronti.

Perché è un uomo che accetta la competizione, piuttosto che l’inciucio. L’accetta e la affronta. E’ disposto a perdere, ma anche duro da sconfiggere. In questo non fa altro che comportarsi come un concorrente di “Apprentice”, il programma TV che ha condotto per 14 anni sulla rete televisiva NBC. Lo show che metteva di fronte due squadre, con un progetto economico (vendita di un nuovo prodotto, raccolta fondi, creazione di una campagna pubblicitaria) per decretare poi la vincente sulla base del raggiungimento dell’obbiettivo.

E propone un progetto forte, in un certo senso rivoluzionario, che è in grado di attrarre sempre più consenso da parte di chi non appartiene al rango dei novelli feudatari o vi aspira. O si accontenta delle briciole che vengono distribuite dopo i loro banchetti.

Trump concepisce il mondo, economico e politico, non come un insieme unico da mantenere sotto controllo, scacco, ricatto, ma come somma algebrica di diversi soggetti, ciascuno dei quali ha il diritto di autodeterminarsi, senza che nessuno – meno che mai la “sua” America – si senta in diritto di esportarvi “la democrazia” o le regole di gestione delle finanze pubbliche a colpi di bombe. D’altra parte si è distinto per non aver fatto sparare all’America un solo colpo di fucile in oltre due anni di presidenza.

Per questo Trump non va a Davos. Per questo vuole ridurre FMI a poco più di un ufficio studi. Per questo concepisce il G20 come un’occasione per un summit con la Cina senza coinvolgervi alcun paese terzo, come se gli altri 18 contassero nulla. Ed in effetti è così, almeno dal suo punto di vista. Perché se vuoi oggi gli USA dalla tua parte, devi stringere accordi con gli USA e lo devi fare come nazione, dimostrando di essere disponibile ad un dare per avere. Ed ecco perché l’Europa odia Trump. Perché invece è abituata a ragionare per schemi precostituiti, che vedono la Germania che detta regole in campo economico e la Francia in quello politico. Con la Spagna che si giova del campo di calcio e del fascino del suo Real per ottenere trattamenti di favore. E l’Italia nel campo dell’eterna aratura.

Ecco perchè, una volta raggiunto l’accordo con la Cina, i prossimi avversari di Trump saranno la Germania e la sua volontà global-mercantilista. La Francia, per quel che può valere la Francia oggi, con quella sua perenne vocazione al colonialismo e le manie di grandezza del suo presidente, certo non suffragate dallo spaventoso debito pubblico+privato da cui è gravata (altro che Italia…). Ma soprattutto i personaggi ai vertici di istituzioni economiche e banche centrali, che in qualche modo devono tornare a cedere il passo al primato della politica. Anche quando pensano di imporre opinioni rispettabili, suffragate da accademici e giornalisti specializzati, ma che proprio non si confanno a popoli e nazioni.

In fondo lo stesso “nuovo” Powell, quello che vediamo dopo l’ormai celeberrimo Trump-tweet “la Fed è impazzita” è un po’ la rappresentazione dell’Apprentice politica di questa amministrazione USA: fai parte di una squadra, se dovessimo fallire e si scoprisse che tu ne sei stato responsabile, “you’re fired!”, come avveniva alla fine di quella trasmissione.

Sia chiaro: la mia non è un’agiografia di Trump, che potrà anche essere considerato da contemporanei e posteri una figura inadeguata, come individuo, a gestire una transizione come quella che si sta realizzando.

Che però, Trump o non Trump, porterà alla disintegrazione di un sistema di controllo dell’economia e quindi della vita delle persone fondato sulla rigidità di regole decise “a tavolino”. Magari ineccepibili da un punto di vista teorico, ma che poco hanno a che vedere con una vera economia di mercato, che invece prospera solo sulla dinamica dei rapporti, sullo sprigionarsi di forze sempre più ampie rispetto a quelle in campo, anche a costo di vedere le emergenti soppiantare i vari establishment locali o mondiali.

Ed è qui che si gioca la vera partita, oggi e nei prossimi mesi.

Perché l’ipotesi di una “ripresa” non prevista da padroni e padrini attuali del mondo economico e finanziario, che già lo scorso anno mancarono completamente le previsioni, neppure ipotizzando lo slowdown che poi si è verificato, li renderebbe totalmente nudi e privi di ogni credibilità.

E soprattutto impreparati ad affrontarla, sul piano politico ma anche nella difesa delle loro prerogative in campo economico.

Perciò queste forze spingono verso il ribasso, di indici e valori ed operano in modo incessante per la distruzione di ogni forma di fiducia. Di cittadini, consumatori, ma anche imprenditori.

Lo abbiamo visto fare in Italia, ma anche altrove le cose non vanno meglio.

Negli USA ad esempio è guerra quotidiana e sempre più spregiudicata alla presidenza, mentre alcuni potenziali candidati Dem si sono già dichiarati “contro” Wall Street. All’ipotesi di un benessere diffuso grazie alle plusvalenze finanziarie, a cui partecipa la maggior parte della popolazione, prevale in loro la speranza di un “crack” che già seppero utilizzare nel 2008 per tornaconto proprio e dei grands commis del sistema.

Proprio così: i presunti “progressisti” che si inventano “ribassisti”, nella più deteriore accezione del termine.

Anche se in fondo lo sono sempre stati. A danno della maggior parte di tutti noi.

Perché il modo migliore per controllare popoli e nazioni è impoverirle e poi presentarsi come uomini della provvidenza in grado di far tornare le cose a posto. Più o meno a posto.

Facile indovinare a chi più e a chi meno, penso.

@luigiluccarini


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