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Cultura

UN SECOLO RICCO, UN SECOLO POVERO

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Anch’io ho avuto quindici anni. L’età in cui, se si è pensosi, si pongono domande vaste e ingenue. Anche se ingenue non sono affatto. Ingenuo è illudersi d’avere la risposta. Ricordo che chiesi ad un sacerdote scrittore: “Dicono che Dio abbia tutte le qualità positive al massimo grado e fra le qualità positive c’è sicuramente il senso dell’umorismo. Come mai non ne trovo traccia, nel nostro Dio?” Quell’uomo, pace all’anima sua, aveva più di una freccia avvelenata, al suo arco. Infatti mi sorrise: “L’umorismo in Dio? La Trinità”.

Un’altra domanda posi ad un famoso pittore della mia città: “Che cos’è l’arte?” Ma lui non aveva l’acutezza di Padre Corsaro: “L’arte è creazione”, sparò. Ora, a parte il fatto che di creazione ex nihilo è capace solo Dio (almeno, per chi crede) in senso corrente creazione è anche lo scarabocchio di uno scolaro. E tuttavia se avesse detto: “Creazione di cose belle” gli avrei chiesto che cosa intendeva per belle. Ero un pessimo cliente e le grandi frasi non m’impressionavano affatto.

In questo ero figlio della mia famiglia, che non comprendeva grandi intellettuali ma era dominata dall’indipendenza di pensiero e dal buon senso contadino di mia madre. Fu lei che mi fornì, per così dire, la chiave cartesiana della verità: o essa è chiara, distinta e ragionevole, o è meglio non accettarla. Se mi dicevano che i quadri di Picasso erano grande arte, ed io li trovavo brutti, non avrei mai dovuto dire che li trovavo belli. Mia madre avrebbe riso di me.

Proprio questo atteggiamento franco e non conformista sottolinea il valore di alcune significative esperienze. La prima fu l’immensa emozione che mi provocò la “Pastorale” di Beethoven, ascoltata per caso, in una sera d’estate, senza neanche sapere chi fosse l’autore. Di colpo, a quindici anni, passai dalle canzonette alla grande musica, contraendo una passione che non è mai venuta meno. Alla stessa età o poco dopo, nei musei Vaticani, fui definitivamente sedotto dalla bellezza dell’arte greca: ricordo ancora lo splendore divino dell’Apollo del Belvedere. Infine, intorno ai vent’anni, la visione dell’ “Amleto” di Lawrence Olivier – cioè l’improvviso ed inatteso contatto con quel testo immortale – mi fece misurare la distanza fra un’arte imbalsamata, di cui bisogna dir bene per essere promossi, e un’opera che parla a tutti i livelli, che provoca emozioni indimenticabili anche in chi non è in nessun modo preparato ad apprezzarla. Del resto una volta, al Teatro Greco di Siracusa, vidi un contadino, seduto dietro di me, che assisteva alla tragedia antica col volto rigato di lacrime. Difficilmente gli sarebbe potuto capitare con un’opera dell’Alfieri.

Poi, con lo stillicidio degli anni e dei decenni, ho assistito al degradarsi lento ed inesorabile della produzione artistica. Il Ventesimo Secolo, arido  e incapace di trovare una via, ha svicolato verso il sorprendente, l’incomprensibile, lo sgradevole o perfino il truffaldino, se si sono potute prendere per capolavori di Modigliani delle pietre rozzamente sgrossate, per beffa.

Un’arte afasica ha cercato di far credere che fosse il pubblico colpevole di non capire le parole che essa non diceva. Dimenticando che, al contrario, per secoli e per millenni – da Omero a Molière – l’artista ha cercato di raggiungere la bellezza polivalente, quella evidente a tutti e capace di parlare a ciascuno col suo linguaggio. L’Iliade o l’Odissea appassionano i dodicenni e i filologi ottantenni. La Venere di Milo, paradigma di eterna bellezza, si rivela una donna con la sua tenera umanità, e si avrebbe voglia di innamorarsene. Il David di Michelangelo non è bello perché se ne parla nella Bibbia o perché ha vinto Golia, è bello perché è un essere umano evidentemente bello, in senso corrente, tanto da poter essere apprezzato anche dal turista che viene dall’Estremo Oriente. E nel frattempo è un’opera che suscita l’ammirazione degli specialisti e degli eruditi.

Il Ventesimo Secolo ha prodotto pochissimo e non ha nemmeno avuto il coraggio di riconoscerlo. E dire che non ci sarebbe stato nulla di scandaloso. Ci sono stati  musicisti – come Rimsky Korsakov con Sheherazade – che hanno creato un immenso capolavoro ma nient’altro a quell’altezza. Non sempre la continuità è possibile. Non tutti sono Mozart. Nello stesso modo, un intero secolo può non avere la capacità di rimanere all’altezza dei precedenti e non per questo bisogna strafare. Se Berlioz fosse vissuto duecento anni, forse si sarebbe doluto vedendo che di lui si apprezzava soltanto la geniale “Sinfonia Fantastica”. Ma ciò non l’avrebbe giustificato, se si fosse intestardito a comporre musica sempre più strampalata ed incomprensibile, per infine accusare gli ascoltatori di “non capirlo”. Eppure è ciò che è accaduto all’intera musica.

A corto d’ispirazione, il Ventesimo Secolo non si è rassegnato alla propria afasia. Musica, pittura, scultura, si sono talmente allontanate dalla bellezza da pugno nello stomaco degli artisti del passato, da avere divorziato dal pubblico. Si è preteso che chi non apprezzava la bellezza dei tagli su una tela di Lucio Fontana fisse cieco, rischiando di far confinare l’arte con la truffa.

La grande arte è quella che inchioda anche un ragazzino di quindici anni ad un imperituro innamoramento. Se non ne siamo capaci, non ci resta che riconoscerlo. L’epoca contemporanea, la più prospera di tutti i tempi, quanto ad arte è ridotta alla più desolata indigenza.

Gianni Pardo, pardo.ilcannocchiale.it

21 luglio 2014


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