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Prendendo in considerazione gli scarti di inflazione e di produttività dei paesi periferici rispetto alla Germania, il prof. Sapir misura quanta “svalutazione interna” risulterebbe necessaria per riequilibrare la competitività tra i paesi dell’eurozona. Il risultato è particolarmente pesante per l’Italia, oltre che per la Grecia e la Spagna, e ci dà la misura di quanto sia antisociale questa unione monetaria. 

 

di Jacques Sapir, 30 marzo 2015

(traduzione di Etienne Ruzic)

Sappiamo che in un sistema di moneta unica (un’unione monetaria) come l’eurozona, i paesi membri non possono svalutare l’uno nei confronti dell’altro. Una svalutazione (o una rivalutazione) della moneta puo’ verificarsi solo tra l’insieme dell’eurozona e il “resto del mondo”.

In questa unione monetaria uno dei problemi principali è l’evoluzione della competitività dei paesi membri. I paesi, ormai, non possono più correggere le differenze di competitività con la svalutazione della moneta. Questa competitività puo’ essere calcolata rispetto all’economia dominante dell’unione monetaria, nel caso dell’euro, la Germania. Se vogliamo misurare l’effetto dell’ unione monetaria sull’economia dei paesi considerati, dobbiamo guardare come questa competitività ha potuto evolvere a partire dalla data dell’entrata in vigore dell’unione monetaria.

La questione della competitività

Nel caso dell’eurozona, il problema della relativa competitività dei paesi è oggi un problema di primaria importanza. La competitività relativa evolve, dalla data dell’entrata in vigore dell’UEM (1999), in funzione :

  • 1. delle differenze nei ritmi di inflazione
  • 2 . delle differenze di produttività
  • 3 . delle differenze nella pressione fiscale sulle imprese, tranne nel caso in cui sia stata dichiarata un’unione fiscale
  • 4 . delle differenze nei tassi degli stipendi diretti e indiretti (comprese le prestazioni sociali), tranne nel caso in cui sia stata dichiarata un’unione sociale.
  • 5. dell’aumento in scala di tutta la produzione del Paese considerato rispetto all’economia dominante.

Va notato che solo uno di questi fattori è simile ad una competitività “al netto dei costi”. Infatti, tutti gli studi disponibili sull’eurozona tendono a dimostare che la competitività “al netto dei costi” ha un ruolo relativamente debole, dal 10% al 30% a seconda dei paesi. Va anche notato che, in assenza di un’unione fiscale e di un’unione sociale, i governi saranno tentati di attuare politiche di svalutazione interna (abbassamento dei salari in modo relativo o assoluto) o di ridurre la pressione fiscale sulle imprese. Nel primo caso, questo comprime fortemente la domanda interna e puo’ portare ad una significativa recessione, se la domanda estera non riesce a sostituire la domanda interna che viene meno. Nel secondo caso, questo puo’ portare a politiche fiscali che o si trasformeranno in debito pubblico crescente, oppure avranno come effetto un forte riduzione delle spese pubbliche, cosa che avrà ripercussioni negative sulla salute e l’educazione della popolazione e porterà al crollo della produttività.

In effetti, la questione dei guadagni relativi in inflazione e in produttività permette di determinare l’ampiezza necessaria della svalutazione interna e dei trasferimenti di pressione fiscale dal profitto delle aziende e a carico delle famiglie che bisogna realizzare se si vuole mantenere il livello iniziale di competitività. Possiamo dunque immaginare la frenata dell’attività che ne risulta. Di fatto, la questione della competitività si trasforma per la maggior parte dei paesi di un’unione monetaria in una forte prospettiva depressiva, cosa che era stata notata nel 2007 da Jorg Bibow[1].

Per stimare questo effetto ed il costo potenziale sulla crescita che ne risulta, consideriamo l’evoluzione dei due fattori della produttività sui paesi del sud Europa. Presentiamo dunque qui sotto l’evoluzione dell’inflazione e della produttività in 4 paesi (Spagna, Grecia, Italia e Portogallo) per cercare di stimare l’entità degli adattamenti necessari se questi paesi vogliono restare nell’unione monetaria con la Germania.

La questione dell’inflazione

Consideriamo che i tassi di inflazione siano un buon indicatore dell’aumento dei prezzi per tutta l’economia, cosa che è ovviamente un’approssimazione. Per essere precisi, bisognerebbe distinguere i settori dell’esportazione, i settori esposti alla concorrenza sul mercato interno e i settori che funzionano in condizioni di relativa protezione dalla concorrenza straniera. Abbiamo quindi utilizzato in questo studio i tassi di inflazione sulla base dei dati del FMI. Nel caso dell’eurozona, otteniamo per i 4 paesi scelti le seguenti cifre, rispetto ai tassi di inflazione in Germania.

Tabella 1

Inflazione

Differenze con il tasso di inflazione in Germania

     Grecia                 Italia                 Portogallo                       Spagna

1999 0 0 0 0
2000 2,00% 1,03% 1,54% 1,61%
2001 3,81% 2,22% 2,98% 3,74%
2002 5,44% 2,70% 5,67% 4,79%
2003 8,01% 4,09% 8,30% 7,30%
2004 10,94% 6,09% 10,93% 9,71%
2005 12,43% 6,73% 11,96% 11,35%
2006 14,63% 7,19% 12,44% 13,32%
2007 16,66% 7,83% 14,21% 15,75%
2008 17,83% 7,71% 14,71% 16,83%
2009 20,19% 8,86% 15,00% 19,13%
2010 21,60% 9,56% 13,53% 18,53%
2011 26,83% 10,29% 13,99% 19,96%
2012 28,72% 11,07% 15,76% 21,23%
2013 28,38% 12,88% 16,99% 22,13%
2014 24,95% 12,64% 15,61% 22,37%

Fonte : banca dati del FMI

Vediamo che l’inflazione è più o meno la stessa per la Grecia, la Spagna e il Portogallo dal 1999 al 2007. Il divario si apre ampiamente con la Germania. Poi l’inflazione tende a rallentare in Portogallo, che stabilizza la sua posizione rispetto alla Germania, mentre continua ad aumentare, rispetto ai ritmi tedeschi, per la Spagna e la Grecia fino al 2010. E’ solo a partire da questa data che notiamo una divergenza nella differenza di inflazione con la Germania. Tende a stabilizzarsi in Spagna, mentre aumenta brutalmente (2011 e 2012) in Grecia, prima di diminuire nel 2013 e 2014 

Grafico 1

Differenze di inflazione con la Germania

A-Fig13

Tuttavia, è chiaro che le dinamiche inflazionistiche sono state relativamente simili tra la Spagna, la Grecia e il Portogallo fino al 2007. In seguito, l’applicazione dei programmi di austerità ha avuto diversi effetti, provocando un rapido calo della crescita del divario in Spagna e, al contrario, un aumento di inflazione in Grecia, prima che la brutale politica sostenuta dalla “Troika” provocasse una riduzione di questo divario negli ultimi due anni.

Il caso dell’Italia è abbastanza diverso dagli altri tre Paesi, ma non senza problemi. Il divario del tasso di inflazione con la Germania aumenta regolarmente dal 1999 al 2013. Certo, il ritmo è meno veloce rispetto agli altri tre Paesi, ma l’Italia vede la propria differenza di inflazione con la Germania aumentare di oltre il 12% in totale nel 2013, cosa che, senza l’EMU, avrebbe portato ad un deprezzamento della valuta dello stesso ordine.

Si pone un problema: la differenza fra le dinamiche inflazionistiche è grande (25% per la Grecia, 12% per l’Italia) e durevole. Ora, questi paesi devono avere la stessa politica monetaria della Germania poiché la politica monetaria è dovuta alla BCE e non più alle istituzioni monetarie nazionali. Anche se accettiamo l’idea di una “memoria” nelle aspettative di inflazione [2], ci sarebbe dovuto essere verso il 2004/2005 un allineamento dei ritmi di inflazione con la Germania, che avrebbe portato a curve (grafico 1) più o meno piatte. E invece non è così. Questo costituisce anche un argomento per mostrare che l’inflazione può  avere una componente non-monetaria [3], ma anche per mostrare la follia di voler realizzare l’euro (l’EMU) con dei paesi le cui strutture economiche erano così diverse [4].

La questione della produttività

Il divario tra i ritmi di inflazione tra i 4 paesi e la Germania avrebbe tuttavia potuto essere compensato se i guadagni di produttività del lavoro fossero stati più rapidi in questi Paesi che in Germania. Guardiamo adesso l’evoluzione del divario fra i guadagni di produttività, a partire dalle statistiche dell’OCDE. Anche qui vi sono delle imprecisioni statistiche per quanto riguarda il calcolo preciso delle ore lavorative. L’utilizzo dei dati dell’OCDE ci è comunque sembrato una migliore garanzia di omogeneità dei dati tra i diversi Paesi rispetto al calcolo dei dati nazionali.

Tabella 2

Produttività

Differenze con la crescita di produttività in Germania

                            Grecia                         Italia                               Portogallo                        Spagna

1999 0 0 0 0
2000 1,84% 0,80% 0,74% -0,73%
2001 3,29% -1,51% -1,26% -2,11%
2002 3,72% -3,43% -1,57% -2,20%
2003 9,02% -5,11% -2,30% -2,59%
2004 11,37% -4,53% -0,75% -3,42%
2005 8,33% -5,08% -0,55% -4,76%
2006 9,37% -8,28% -2,71% -7,82%
2007 9,88% -9,81% -1,78% -8,84%
2008 8,49% -10,48% -1,46% -6,99%
2009 10,24% -8,11% 4,31% 2,42%
2010 3,28% -9,60% 4,33% 1,08%
2011 -2,98% -11,79% 1,54% 0,01%
2012 -0,41% -13,22% 3,18% 3,04%
2013 0,11% -12,79% 5,27% 5,44%
2014 -0,12% -13,67% 3,18% 4,84%

 

Fonte :

OECD Economic Outlook, Volume 2014 Issue 2 – © OECD 2014  

Allegato : tavola 12. La produttività del lavoro nell’economia totale

Nota : produttività del lavoro misurata per unità PIB per persona occupata

Constatiamo qui degli sviluppi molto divergenti. Il divario in materia di produttività con la Germania sembra molto grande per l’Italia e la Spagna. La posizione della Grecia invece migliora dal 1999 al 2004 (smentendo in modo sferzante tutti gli abitanti dell’oltre Reno che hanno definito i lavoratori greci “raccoglitori di olive”), mentre il Portogallo ha una crescita della produttività simile a quella della Germania.

A-Produc

La crisi del debito ha invece degli effetti molto diversi a seconda dei paesi. A partire dal 2008, la Spagna e il Portogallo raggiungono i guadagni realizzati in Germania. Questa evoluzione è particolarmente forte per la Spagna che guadagna il 12% rispetto alla Germania. Possiamo spiegare questo con l’ipotesi che l’aumento della disoccupazione (molto forte in questi due Paesi) è stato provocato essenzialmente dalla chiusura delle unità di produzione meno efficienti e in particolare dalla chiusura (o la fine) dei cantieri di costruzione, mentre le imprese industriali, che sono tradizionamente più produttive del settore edile, erano meno toccate dalla forte recessione. In Grecia, invece, assistiamo al fenomeno contrario. Anche qui la disoccupazione aumenta fortemente a partire dal 2009, ma porta ad un deterioramento della situazione della Grecia rispetto alla Germania.

Se l’evoluzione della Spagna e del Portogallo è più o meno conforme alla teoria economica, non è la stessa cosa per la Grecia. Possiamo dunque pensare che la brutalità con la quale è stata applicata la politica della Troika abbia portato alla chiusura di aziende anche redditizie e molto produttive (effetto di crisi di liquidità), ma anche che la quasi distruzione del sistema sociale in Grecia abbia avuto effetti perversi sull’investimento e la disponibilità della forza lavoro. Da questo punto di vista, e sebbene non sia stato effettuato alcuno studio generale, dobbiamo interrogarci sulle conseguenze economiche e produttive dei tagli importanti nel campo sociale e nelle infrastrutture di sostegno alla popolazione.

Resta comunque il fatto che c’è un Paese la cui evoluzione è preoccupante: l’Italia. Non si vede alcun segno di miglioramento della produttività rispetto alla Germania. Il declino è regolare e più o meno costante. Il divario di produttività con la Germania è enormemente aumentato dal 1999.

La competitività e il “bisogno” di svalutazione interna

Combiniamo allora questi dati sottraendo il valore dell’inflazione differenziale al divario di produttività al fine di vedere come si combinano gli effetti dell’aumento dei prezzi e della produttività. Il risultato è impressionante, sia per il caso della Grecia che per quello dell’Italia.

 

Tabella 3

Somma delle differenze di produttività e inflazione dei quattro Paesi dell’Europa del sud con la Germania

     Grecia                 Italia                 Portogallo                       Spagna

1999 0 0 0 0
2000 -0,2% -0,2% -0,8% -2,3%
2001 -0,5% -3,7% -4,2% -5,9%
2002 -1,7% -6,1% -7,2% -7,0%
2003 1,0% -9,2% -10,6% -9,9%
2004 0,4% -10,6% -11,7% -13,1%
2005 -4,1% -11,8% -12,5% -16,1%
2006 -5,3% -15,5% -15,1% -21,1%
2007 -6,8% -17,6% -16,0% -24,6%
2008 -9,3% -18,2% -16,2% -23,8%
2009 -10,0% -17,0% -10,7% -16,7%
2010 -18,3% -19,2% -9,2% -17,5%
2011 -29,8% -22,1% -12,4% -19,9%
2012 -29,1% -24,3% -12,6% -18,2%
2013 -28,3% -25,7% -11,7% -16,7%
2014 -25,1% -26,3% -12,4% -17,5% 

Fonte : calcolo del CEMI-EHESS e tabelle 1 e 2 di questo testo

 

La “necessità” di svalutazione interna (ossia di calo dei salari nominali) e di riduzione degli oneri sulle aziende sembra essere enorme in Grecia e in Italia. In questi due Paesi, che sono anche quelli che hanno il debito pubblico maggiore e il minor margine di manovra fiscale, occorrerebbe un doppio sforzo, sui salari e sugli oneri delle imprese di circa il 25% per compensare il declino della produttività rispetto alla Germania dal 1999.

 

Grafico 2

Indicatori cumulati di competitività (produttività e inflazione) con la Germania

A-Fig15

Lo sforzo sembra minimo in Spagna (ma comunque sostanziale) e soprattutto in Portogallo. Vediamo che la Grecia e l’Italia possono sperare di stabilizzare la loro situazione in seno all’eurozona solo a condizione di realizzare una svalutazione salariale (la svalutazione interna) di circa il 20%. Questo ci porta verso un’altra ipotesi: quella dell’uscita dall’euro (e della fine dell’unione monetaria). Un deprezzamento della valuta nazionale (la dracma e la lira) di circa il 25% permetterebbe a questi paesi di ritrovare la competitività con i paesi dell’unione monetaria. Anche nel caso della Spagna, questa soluzione sembrerebbe migliore rispetto alla continuazione di una politica di austerità, poiché occorrerà fare sacrifici supplementari per sperare di ritrovare la competitività del 1999.

Misuriamo qui quanto sia folle cercare di fare un’unione monetaria senza meccanismi di transfert, senza unione fiscale e senza unione sociale. Nella situazione attuale, solo un’uscita rapida dall’euro puo’ risparmiare alle popolazioni dei tre paesi, la Spagna, l’Italia e la Grecia, la continuazione della sofferenza e della disperazione che ne risultano.

 

[1] Bibow J.,, « Global Imbalances, Bretton Woods II and Euroland’s Role in All This », in J. Bibow et A. Terzi (dir.), Euroland and the World Economy: Global Player or Global Drag?, New York (N. Y.), Palgrave Macmillan, 2007

[2] C. Conrad et M. Karanasos, « Dual Long Memory in Inflation Dynamics Across Countries of the Euro Area and the Link between Inflation Uncertainty and Macroeconomic Performance », Studies in Nonlinear Dynamics & Econometrics, vol. 9, n° 4, novembre 2005 (publié par The Berkeley Electronic Press,http://www.bepress.com/snde ).

[3] D’où la notion de l’inflation structurelle. Voir Sapir J., « What Should the Inflation Rate Be? (On the Importance of a Long-Standing Discussion for Defining Today’s Development Strategy for Russia) », Studies on Russian Economic Development, vol. 17, n° 3, mai 2006 et

[4] Sapir J., Faut-il sortir de l’Euro ?, Le Seuil, Paris, 2012.