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Riportiamo a casa il debito pubblico: la proposta di Siri di Luca Pinasco

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Armando Siri ha fatto una proposta innovativa sulla gestione del debito: i Cir (conti individuali di risparmio) da inserire nel Def. Il Cir è finalizzato a permettere alle famiglie di investire in titoli di Stato, con una serie di vantaggi fiscali (il rendimento sarà esentasse e si potrà dedurre il 23% della somma investita, ad esempio) e consentire allo Stato, da un lato, di usare quel risparmio per finanziare le infrastrutture e la manutenzione di strade, scuole e ponti, dall’altro di «riportare il nostro debito pubblico in mano alle famiglie italiane». Inizialmente avranno un tetto di 3000 euro a famiglia e 15 miliardi l’anno a livello aggregato, limite che sarà incrementato dopo la prima fase di sperimentazione. A mio avviso non si sente una proposta così ragionevole da anni. Spiego meglio il perché.

La tesi del seguente ragionamento è che il debito pubblico non rappresenterebbe un problema se fosse in mano a famiglie e aziende italiane. Buona parte degli interessi pagati dallo Stato non andrebbero a istituti esteri, ma rimarrebbero dentro il sistema economico nazionale, diventando un guadagno per i cittadini e le imprese che posseggono titoli, dunque ricchezza per il paese, oltre che risorse immediatamente spendibili dallo Stato per spesa in infrastrutture e manutenzione. Con Klein diremmo che “il debito pubblico interno non è mai un fardello, dal momento che lo dobbiamo a noi stessi, i più sofisticati avversari della pianificazione della piena occupazione si lamentano di essere stanchi di sentire la banale <<tesi del dovuto a noi stessi>>, a questi possiamo solo rispondere che noi pure siamo stanchi di sentire l’a fortiori banale <<tesi del fardello del debito>>”. Questa non è una visione soltanto teorica, ma trova applicazione nella realtà, basta guardare al modello giapponese dove lo Stato riesce a mantenere un rapporto debito/PIL che oscilla tra il 230% e il 250% (quasi il doppio di quello italiano) con pressoché nulli livelli di disoccupazione (inferiore al 3%) o inflazione, tassi d’interesse minimi e massimi livelli di sviluppo sociale e tecnologico. Nel modello giapponese il debito pubblico rappresenta infatti un credito per i cittadini che lo acquistano e una ricchezza per la collettività. Negli anni ’80, quando in tutti i paesi sviluppati iniziarono ad internazionalizzare il debito, i governi del Pentapartito a guida Craxi, in accordo con la maggioranza della classe politica italiana, non si accodarono a tale tendenza, la gran parte del debito pubblico così come gli interessi, nonostante stessero crescendo a causa del divorzio, rimasero “in casa”, nelle mani di grandi aziende pubbliche e private e in maggioranza nelle mani dei cittadini, trasformandosi così in ricchezza nazionale e tornando in parte indietro allo Stato attraverso la tassazione dei maggiori redditi. Come si può notare dai diagrammi e dal grafico, la porzione di debito pubblico detenuta dagli investitori stranieri cresce negli ultimi trent’anni dal 4% del 1988 al 32% attuale. Quella dei cittadini italiani cala invece dal 57% al 6%.

 

 

 

L’internazionalizzazione del debito crea anche un altro problema di carattere politico. Come fece notare Noam Chomsky, facendo un esempio sulla situazione degli Stati Uniti durante un dibattito con studenti universitari, se un governo volesse attuare una spesa pubblica di 20 miliardi non gradita agli istituti finanziari esteri creditori, a questi ultimi basterebbe vendere una irrisoria quantità di titoli di debito per provocare un rialzo dei tassi, minimo ma sufficiente a far aumentare gli interessi al punto da incrementare il costo della spesa rendendo insufficienti le coperture. Cosa aggravata nella nostra condizione dall’assenza di una banca centrale che funga da prestatore d’ultima istanza. È chiaro che ciò rappresenti un’ulteriore cessione della propria sovranità a favore degli investitori stranieri. Ma Chomsky fu troppo ottimista. L’influenza dei creditori esteri sugli stati debitori, non si è limitata alle politiche di spesa ma è andata molto più in la. Basti pensare come la vendita mal comunicata di 8 miliardi di titoli di Stato italiani da parte di Deutsche Bank, nel 2011, fece alzare lo spread al punto di determinare la caduta del governo Berlusconi e la nascita del governo Monti. Quest’episodio di storia recente italiana rappresenta il massimo livello di pressione mai esercitato ad un legittimo governo per mezzo del debito, portando alla sostituzione dello stesso. Tale paradossale situazione si è potuta verificare a causa del fatto che, senza alcuna regolamentazione, negli anni ’90 venne ceduta una parte del debito nazionale a istituzioni finanziarie internazionali.

Il problema dell’internazionalizzazione del debito pubblico ha un’unica soluzione: quella di riportare il debito in casa, seguendo il vincente modello giapponese. In questo contesto la proposta di Armando Siri rappresenta una soluzione a portata di mano. La domanda del Corriere della Sera è stata: le famiglie italiane in un momento di incertezza tra deficit, rating e spread, accetteranno di investire in titoli italiani? La risposta di Siri è stata: «Investire nel proprio Paese dimostra che si crede nel proprio futuro. L’ho sempre detto molto chiaramente: siamo soggetti a queste oscillazioni molto forti sui titoli di Stato, perché sono in mano a investitori esteri. Le famiglie italiane non si faranno influenzare troppo da Standard & Poor’s o a Moody’s. E poi il Paese è più solido di quanto si dice, grazie a 5 mila miliardi di risparmio privato e a 4 mila miliardi di patrimonio immobiliare, a differenze di altri Stati della zona euro, che hanno un debito privato molto più alto del nostro. In un momento topico di cambiamento credo che potremo contare sull’appoggio delle famiglie, che in maggioranza, tra l’altro, ci hanno votato».

Luca Pinasco


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