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La rielezione di Erdogan e gli errori nella politica estera USA di Barack Obama: aspettiamoci pesanti ed impensabili conseguenze

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Nonostante gli scandali – ipotetici o reali – che lo hanno travolto, Erdogan è stato rieletto alla presidenza della Turchia con la maggioranza assoluta. Questa è una notizia destabilizzante per l’amministrazione americana che aveva investito molte risorse nella sua caduta.

In breve, le premesse sono che gli USA nell’ambito di un contemporaneo indebolimento della Russia, di un potenziamento del ruolo degli alleati arabi in medio oriente (finalizzato a far giungere il petrolio iraqueno nel mediterraneo ed a controllarne flussi e prezzi, valuta di scambio inclusa) anche in relazione all’immancabile premessa/conditio sine qua non di mantenere gli scambi di petrolio denominati in dollari USA, hanno sferrato l’attacco alla Siria confidando in uno rapido crollo del regime, un po’ come capitato per tutti i Paesi nord africani esclusa l’Algeria (su cui la Francia ha posto il veto, nessun intervento nell’ex colonia governata per interposta persona dal super ‘allineato’ Bouteflika, oggi in cura a Parigi).
Nel marasma di un conflitto quasi epocale visto il numero dei paesi coinvolti in situazioni di cambio di regime (mi verrebbe da inserire anche il golpe del 2011 contro il grandissimo alleato americano dell’era Bush, Silvio Berlusconi, se non altro per l’indifferenza d’oltreoceano nell’impedirlo), Erdogan ad un certo punto decise di giocare la sua partita nello scacchiere medio orientale cercando l’annessione siriana nei termini di un ricollocamento di Damasco nel solco dell’influenza di Ankara. Questo chiaramente ha irrigidito gli USA che hanno tirato fuori le unghie come sanno ben fare, leggasi praticando l’intromissione soft, possibilmente facendo leva sugli scandali (in Italia sono 30 anni che succede e forse anche più).
Oggi l’arma letale di turno non è più il semplice dossieraggio da passare alla stampa ma è il controllo dei social networks, in grado di prevedere le tendenze elettorali (peccato si sia realizzato troppo tardi che in paesi molto nazionalisti semplicemente tale strumento non funziona – tipo Turchia -, mentre in Italia è efficacissimo!). Dunque, Erdogan forte di un supporto strabordante ha comunque vinto le presidenziali addirittura con la maggioranza assoluta ed ora le cose davvero si complicano: per Washington può significare la nascita di un asse alternativo e credibile alla sua presenza storica in Medio Oriente. A livello informativo si ricordi che Iran ed Iraq sono paesi a fortissima connotazione sciita, come l’elite al potere a Damasco: la Turchia ha una grande minoranza sciita (ca. 30%) ma soprattutto mantiene ancora una certa qual capacità agglomerante legata alle proprie radici ottomane, per lo meno nella fascia Medio Orientale mediterranea. Se si dovesse rinsaldare l’asse turco-iraniano sarebbero dolori. Da qui le ambizioni del presidente turco.

In questo contesto l’amministrazione USA di Barack Obama rischia di aver fatto un capolavoro: è riuscita a trasformare gli alleati in nemici, gli amici in rivali. Nessun presidente USA era arrivato a tanto, oggi i cugini d’oltreatlantico hanno ben più dei famosi tre fronti aperti contemporaneamente che storicamente/da manuale hanno segnato la sconfitta in qualsiasi di fatto belligeranza: gli USA hanno aperti fronti in Iraq e Medio Oriente (incluso l’Arghanistan), in Ucraina e Russia, NSA come fronte globale, quest’ultimo avendo comportato una conflittualità dichiarata con alleati storici (Brasile e Germania su tutti ma anche con la Cina). Poi una serie di conflitti sotto traccia in tutto il mondo musulmano, escludendo l’Arabia e gli alleati del golfo, dove però al contrario delle elites al potere la popolazione non sembra essere così amichevole nei confronti degli anglosassoni, memento i disordini in Bahrain di alcuni anni or sono. E la Turchia sembra pronta a rivaleggiare nel vicino Medio Oriente, probabilmente addirittura con maggior incisività rispetto al passato. A questo si aggiunga una crisi economica irrisolta e le presidenziali americane che si avvicinano, c’è da scommettere che i repubblicani non faranno sconti al primo presidente di colore degli Stati Uniti, i maligni sussurrano anzi che cercheranno di fare in modo di fare il grande ribaltone e con queste referenze i democratici avranno il loro da fare per difendersi dagli attacchi.

Si noti inoltre che una delle conseguenze cruciali della belligeranza 2.0 del terzo millennio (oggi con le armi strategiche le guerre con i ‘pari nucleari’ sono di fatto escluse, dunque ogni forma di conflitto che normalmente di sarebbe combattuta con le armi oggi resta apparentemente sotto traccia) è l’accordo di portata storica tra Russia e Cina, accordo che fa il paio con quello di Nixon con Mao che aprì l’impero celeste al mondo: anche in questo caso le ripercussioni saranno di portata globale ed il rischio di un asse commerciale tra Russia e Cina a tutto tondo deraglierebbe senza ombra di dubbio il dollaro come moneta di scambio globale (leggasi, gli States non potranno più scambiare carta con merci, ossia i consumi americani rischiano di esserne pesantemente intaccati e con essa l’intera macchina economica statunitense).
Ricordiamo che il tanto vituperato G.W. Bush riuscì nel capolavoro di mettere d’accordo tutti nelle due guerre in Medio Oriente ed Afghanistan, sebbene con risultati (ed anche modi) discutibili fu indubbiamente un capolavoro diplomatico. Il confronto con la situazione attuale stride alquanto.
Quale storico sostenitore degli USA, sebbene non riesca veramente a comprendere i fini dell’amministrazione americana attuale, sono molto preoccupato: l’Italia è penso l’unico paese in cui il sinonimo di eden è l’America (“…hai trovato l’America…”) e da italiano vedere gettare alle ortiche un così cospicuo patrimonio di relazioni ed alleanze sembra davvero un peccato oltre che apparire come un grave errore strategico. Della serie, i migliori alleati sono coloro che non sono obbligati ad esserlo…

Mitt Dolcino


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