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Conti pubblici

RENZI E LA TRABALLANTE STABILITA’ DEI NUMERI

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Da Vincitori e Vinti di Paolo Cardena’

Da The Fielder, GUEST POST di Francesco M. Renne, che ringrazio per la gentile concessione.
«La piú grande riduzione di tasse mai avvenuta» (citando il presidente del Consiglio Renzi, in conferenza stampa di presentazione della Legge di Stabilità)? Sicuri? O, forse, solo la piú grande manipolazione di numeri dati in pasto all’opinione pubblica? Approvata nella riunione del Consiglio dei Ministri mercoledí 15, il testo era atteso il lunedí successivo al Colle; è giunto solo martedí, e senza la «bollinatura» della Ragioneria Generale dello Stato, apposta solo il giorno successivo. Nel frattempo, le tabelle allegate, i numeri e alcune formulazioni lessicali sono stati modificati (e probabilmente non riapprovati, ma questo — per molti, non solo politicanti di professione — parrebbe quisquilia). Poi interviene la Commissione Europea nel chiedere chiarimenti (e nel fare la parte del «cattivo»); nel frattempo, qualche commentatore isolato, qua e là, sulla stampa e su Internet, osa contestare quei numeri; infine, quasi a voler limitare i danni, interviene il MEF, che sul suo sito pubblica una tabella dei saldi della manovra, definitiva (o quasi).

Già, perché a questo punto della storia, e siamo a giovedí della settimana successiva all’approvazione, quello dei numeri è diventato un vero e proprio rebus. Il Ministero riassume la manovra, precisando che il bonus degli 80 euro è statisticamente classificato quale maggiore spesa, nonché quantificando interventi totali per 36,2 miliardi d’euro, suddivisi in minori entrate lorde per 14,7 miliardi, maggiori spese correnti per 16,3 miliardi, e maggiori spese in conto capitale per 5,2. Queste misure trovano coperture per 25,8 miliardi, di cui maggiori entrate per 9,6 miliardi, minori spese correnti per 13,3 e minori spese in conto capitale per 2,8. Ciò comporta un saldo a deficit di 10,4 miliardi d’euro, dato da circa 5 miliardi (qui la tabella contiene un errore d’arrotondamento, sarebbe 5,1) di minori entrate e 5,4 miliardi di maggiori spese. Ben lontano, sia il saldo netto sia la voce lorda, da quei «18 miliardi di minori entrate» annunciati dal presidente del Consiglio in conferenza stampa. E senza contare la clausola di salvaguardia che scatterebbe, nel caso di successiva insufficienza dei risparmi di spesa previsti, aumentando progressivamente dal 2016 l’IVA (dal 10% al 13% e dal 22% al 25,5%) e le accise sui carburanti (per 700 milioni circa).

Il nostro presidente del Consiglio, che s’era mostrato prima trionfante nelle sue dichiarazioni, ha poi tradito un po’ d’insofferenza alle critiche tecniche ricevute (non solo della Commissione Europea), tanto da passare da affermazioni del tipo «Caro imprenditore, abbiamo tolto la componente costo del lavoro dall’IRAP e tolto la contribuzione sui neoassunti sui primi tre anni; che cosa vuoi chiedere di piú?» a «Non saranno iragionieri a salvare l’Italia». Al di là che quest’ultima affermazione meriterebbe un altro tipo di confutazione, stante l’evidente diversa individuazione delle cause dei mali dell’Italia tra chi scrive e il presidente del Consiglio, la cifra renziana si conferma piú sulle affabulazioni verbali che sulla sostanza dei numeri.
La manovra si poneva come obiettivi principali un sostegno ai consumi privati, un incentivo alle assunzioni e uno sgravio al cuneo sul costo del lavoro, focalizzandosi cioè su potenziali stimoli alla ripresa piú che su meri incrementi di tassazione (addirittura esclusi in qualche annuncio appena successivo all’estate) e s’una maggior incisività della spending review (ridotta a soli ~5 miliardi, rispetto ai 25 annunciati tempo addietro). In parte, tale direttrice è confermata dai provvedimenti implementati e annunciati con enfasi dal governo. Vanno in questa direzione, infatti: ladecontribuzione dei neoassunti a tempo indeterminato per i primi tre anni di lavoro, con un limite di 8.060 euro; l’eliminazione della componente costo del lavoro dalla base di calcolo IRAP, seppure solo per i lavoratori a tempo indeterminato e solo a partire dal 2015, quindi con effetto rinviato d’un anno per le imprese; la conferma strutturale del bonus degli 80 euro, seppure senza il promesso ampliamento della platea dei soggetti interessati, nonché l’introduzione del bonus bebè, su richiesta degl’interessati; infine, l’introduzione della possibilità di richiedere il TFRin busta paga (senza effetti sulla ricevibilità del bonus degli 80 euro), con un’opzione triennale e a cadenza pro quota mensile, seppure (diversamente dalle aspettative iniziali) assoggettandolo a tassazione ordinaria.
Per contro, oltre a una corposa mole di provvedimenti minori, altre misure sollevano dubbi sia riguardo alla «sostanza» dei numeri rappresentati in sede di presentazione della manovra, sia riguardo alla «coerenza» degli obiettivi enunciati — nonché riguardo all’impatto sull’economia reale e sui conti pubblici. Infatti, talune misure hanno un impatto non marginale sulla pressione tributaria, alzandola, seppur di poco, sia per il 2014 sia per il 2015, cosí come talune altre aprono non pochi dubbi sulla sostenibilità di lungo periodo di manovre cosí impostate. In particolare, sollevano critiche alcuni provvedimenti, come l’annullamento della riduzione del 10% dell’aliquota IRAP (previsto solo pochi mesi fa dal governo Letta) con effetto già dal primo gennaio 2014, che genera inasprimento del carico fiscale per tutte le imprese, poiché l’effetto sul costo del lavoro prima descritto decorrerà dal 2015, e per quelle senza dipendenti ma con indebitamento anche nei periodi successivi.
Sollevano critiche anche l’inasprimento retroattivo della tassazione della rivalutazione del TFR accantonato, dall’11% al 17%, quello dall’11,5 al 20% sui fondi pensione, e quello al 26% sulle Casse Previdenziali private. In particolare, queste ultime tre misure hanno un impatto ben oltre la percentuale nominale d’aumento, poiché si riverberano — in forme diverse — nel cumulo d’un montante progressivo che costituirà la pensione (o la liquidazione, nel caso del TFR) futura d’una parte dei cittadini, che sarà conseguentemente decurtata d’un’aliquota reale maggiore di quella nominale qui fissata. Se a ciò aggiungiamo, nello spirito della manovra d’«accelerare» i consumi, la decontribuzione (in disavanzo) dei primi tre anni dei neoassunti e lo stimolo a «richiedere» il TFR anticipatamente, pare quasi che si voglia tirare la coperta all’oggi, rinviando i problemi di sostenibilità al futuro. Di doman non v’è certezza, ma questa scelta che emerge dalla manovra — del tutto priva di valutazioni di sostenibilità nel lungo periodo — e che si somma alle maggiori tassazioni sul risparmio immobiliare e finanziario, tra «patrimonialine» e aliquote sui redditi,appare una pericolosa scommessa al buio.
Credo sia appunto su questo, anche se s’un piano piú di macro, il dubbio che ha còlto la Commissione Europea nel valutare, come previsto dai trattati, la Legge di Stabilità italiana. La considerazione, cioè, che tanto la scommessa sotto traccia prima evidenziata quanto la richiesta d’allentamento del percorso di rientro del debito pattuito (seppur attivando una specifica previsione prevista dal tanto vituperato fiscal compacte applicabile al caso di specie) e dell’uso di maggior disavanzo (seppur all’interno della tolleranza del 3%) possano esser vinte solo in virtú di maggiore crescita strutturale nei prossimi anni. Cosa che, invero, appare non solo improbabile, ma addirittura non presente come scenario nelle previsioni triennali dell’aggiornamento del Documento d’Economia e Finanza (DEF) triennale italiano. Da qui muovono le domande, poiché nei fatti il testo registra gli scostamenti dal percorso di rientro pattuito e pone semplicemente richieste di spiegazioni ulteriori, inserite nella lettera indirizzata al ministro Padoan.
Proprio quella lettera — strictly confidential, recitava — che è stata poi al centro d’un incidente diplomatico, essendo stato deciso di renderla pubblica nonostante il parere contrario della Commissione UE. «Trasparenza», ha affermato il presidente del Consiglio; ricerca d’un nemico da additare all’opinione pubblica, forse, piú maliziosamente. Infatti, se fosse vero lo spirito di trasparenza evocato, perché non sono stati resi pubblici i documenti di Cottarelli sulla spending review o il testo del Patto del Nazareno? «Trasparenza», viene ribadito da piú parti; come il mancato rispetto delle previsioni dello Statuto del Contribuente sull’irretroattività delle Leggi tributarie contenuto nella manovra. I «ragionieri» forse non salveranno l’Italia, ma sanno ancora far di conto

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