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Reliance on professional management: il ricorso ad una gestione professionale in Italia

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Le soluzioni che sono state proposte con l’avvento della crisi, al fine di “riallineare” la nostra economia con quella dei paesi più virtuosi, dagli economisti mainstream ed ortodossi, passavano, ancora una volta, principalmente dalla svalutazione del fattore lavoro; quasi che questo fosse sic et simpliciter il solo ed unico responsabile delle sventure italiane. Per cui abbiamo visto, sia nel settore pubblico che nel settore privato una richiesta di riduzione dei costi del lavoro che, passando attraverso le magiche riforme strutturali, potessero renderci più competitivi. Il che significava sempre, guarda caso, una ulteriore flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro; non di tutto il mercato del lavoro, ma principalmente di quello già precario, flessibile, sottoccupato, giovanile e di coloro che lo avevano perso il posto di lavoro; mentre l’indirizzo generale andava verso una riduzione dei diritti e delle tutele. Di pari passo con questa perdita di “quota” diritti per il lavoro, dagli anni ’90, si è segnalata anche una perdita di quota “salario”, mentre i profitti e quindi le retribuzioni di alto livello hanno continuato ad aumentare, tantoché dal dopoguerra la quota salario è verso il minimo storico, mentre la quota profitti è tornata a livelli addirittura superiori a quelli precedenti la crisi. Si sono poi viste persone (sia nel pubblico che nel privato) che guadagnavano centinaia di migliaia di euro all’anno dire a persone che arrivavano a malapena a mille euro al mese che erano “troppo costose”, che erano poco competitive e che, pertanto, avrebbero dovuto accettare dei tagli. Ed, infine, il lavoro che veniva svalutato e tagliato, nonostante lor signori parlassero sempre con un plurale (dobbiamo fare i sacrifici – “dobbiamo”), ovviamente maiestatis, finiva sempre per essere quello degli altri. Ma visto che si è parlato di riforme strutturali del mercato del lavoro cercando di tagliare, appunto, dove si è sempre tagliato (“in basso”), cioè il fattore lavoro, vedendo così la competitività solo dal lato del lavoro; si è sempre cercato, anche, di evitare di parlare della competitività invece che dal lato dal lavoro da quello delle imprese. Cerchiamo, allora, come già fatto in un altro articolo tratto da uno studio del Levy Economics Institute of Bard College, di spostare il “focus” dal lato del lavoro a quello delle imprese. E se, come spiegato nell’articolo segnalato, i costi unitari del lavoro sono una misura di competitività dal lato del lavoro, mentre i costi unitari di capitale possono essere la misura della competitività dal lato delle imprese, possiamo immaginare anche, in questo caso, che se la produttività è una “misura di competitività” dal lato del lavoro, la gestione professionale potrebbe essere una misura di competitività dal lato delle imprese. Per cui, con i dati dell’World Economic Forum andiamo a vedere il ricorso (o affidamento) ad una gestione professionale che determina con una scala di valori da uno (minimo) a sette (massimo), nei paesi presi in considerazione, chi occupa le posizioni di senior mamagement, con “uno” che corrisponde a “di solito parenti o amici senza riguardo al merito”; mentre “sette” corrisponde al massimo, cioè “principalmente manager professionisti scelti per merito e le qualifiche”. Il primo confronto che faremo è tra l’Italia, il core europeo (Francia e Germania) e tre economie sviluppate come USA, Giappone e Regno Unito.

Grafico 1 – ricorso ad una gestione professionale in Italia, Francia, Germania, Giappone, USA e Regno Unito

Capacità manageriale I

Come detto sopra la scala va da uno a sette e l’Italia si piazza appena sopra la metà. Si potrebbe anche risolvere con un “in medio stat virtus”, ma purtroppo non è questo il caso. Quello che dobbiamo notare, invece, è che il ricorso o l’affidamento (come preferite) ad una gestione professionale, nelle imprese italiane, verso un senior management principalmente scelto per merito e competenza piuttosto che per parentela ed amicizia è inferiore, di molto, a quello di tutti gli altri paesi presi in considerazione. Aggiungerei che probabilmente i tedeschi hanno un grosso senso del merito (almeno sembra dal grafico) quando sono “a casa loro”, mentre per le sedi estere delle loro multinazionali è facile che il ricorso alla gestione professionale si adagi su quello proprio del paese della sede estera. Dopo di questo, facciamo la stessa cosa ma con i PIIGS.

Grafico 2 – ricorso ad una gestione professionale nei PIIGS

Capacità manageriale II

Se le cose non andavano bene confrontante con le economie più sviluppate, nemmeno con il resto dei paesi PIIGS sembrano andare meglio. Si, va bene, salvo che con l’Irlanda (sic!), la “forbice” con Spagna, Portogallo e Grecia, si riduce parecchio rispetto a quella con le altre economie sviluppate del grafico 1; ma rimaniamo comunque, in questo caso, il fanalino di coda addirittura sotto la Grecia. Per cui, sembrerebbe che in quanto ad affidamento a una gestione professionale le imprese italiane, tra i paesi PIIGS, siano quelle che meno fanno ricorso ad una scelta del management in base a valutazioni di competenza e merito; privilegiando una sorta di “nepotismo”. Una volta visto il rapporto tra Italia e principali economie sviluppate e, ancora, quello tra Italia e i restanti paesi noti come “maiali”, vediamo se nel confronto con i paesi in via di sviluppo conosciuti come BRICS le cose vanno meglio.

Grafico 3 – ricorso ad una gestione professionale in Italia e nei BRICS

Capacità manageriale III

In questo caso possiamo ben dire di non essere il fanalino di coda solitario, infatti appaiata all’Italia (nel 2011) troviamo la Russia il cui trend di affidamento ad una gestione professionale è in diminuzione dal 2008, ma Brasile, Cina, India e Sud Africa sono tutte “piazzate” meglio dell’Italia. Pertanto anche nel confronto con i BRICS le cose non sono proprio esaltanti. Facciamo un ultimo tentativo confrontando l’Italia con la Thailandia, l’Albania, la Romania, l’Uganda ed il Bangladesh; non proprio dei paesi conosciuti come potenze economiche.

Grafico 4 – ricorso ad una gestione professionale in Italia, Thailandia, Albania, Romania, Uganda e Bangladesh

Capacità manageriale IV

Nemmeno il confronto con economie che sono di gran lunga “inferiori” come prodotto interno lordo e complessità a quella italiana ha, dal punto di vista dell’affidamento ad una gestione professionale, dei risultati accettabili. Infatti ci piazziamo addirittura al di sotto dell’Uganda. Per cui sembrerebbe che il sistema italiano di “selezione”, anche per posizioni di alto livello, si basi su un criterio meritocratico e di capacità che è inferiore, in maniera imbarazzante, a quello di tutte le economie sviluppate, a quello dei PIIGS, dei BRICS e anche di altre economie come Romania, Albania Bangladesh e Uganda! Ora, è ovvio che non si vuole sostenere che tutto il management nostrano sia fatto di raccomandati figli di un procedimento di selezione improntato a criteri di nepotistici che predilige il rapporto di parentela o di amicizia, no: ci mancherebbe! ci sono anche manager italiani che si sono guadagnati tutto quello che hanno avuto e magari avrebbero meritato anche di più. Quello che si vuole sostenere è che alla luce di quanto esposto sopra è fuorviante continuare ad indicare il solo fattore lavoro come la causa di tutti i mali italici. Come infatti abbiamo visto anche la competitività del capitale ha avuto la sua parte, visto che la quota capitale è in aumento mentre quella lavoro è in diminuzione; e, come già detto, le imprese italiane sembrerebbero anche aver investito in settori dove la produttività totale dei fattori era inferiore rispetto ad altri, ed in una economia guidata dall’innovazione questo potrebbe essere un errore non da poco. Se a questo sommiamo che gli italiani hanno una media di ore lavorate abbastanza alta che compensa la minore produttività per ora lavorata, per es. della Germania e che, comunque, la rigidità del mercato del lavoro italiano è inferiore a quella dei vicini francesi e tedeschi, dovrebbe essere d’obbligo la conclusione che il continuo scarico di responsabilità verso il fattore lavoro è pura demagogia. In questo contesto, purtroppo, dobbiamo anche considerare che i dati riportati dall’Word Economic Forum ci dicono, comunque, che il ricorso ad una gestione professionale in Italia, relativo al “recruitment” del management di alto livello, è più improntato ad una selezione che prescinde dalle competenze e dal merito a favore di un criterio che avvantaggi i parenti, gli amici e gli amici degli amici. Detto questo, da ultimo, non è detto che tra i “raccomandati” non ci siano perone valide, anzi; ma qualora non fosse così, i responsabili di un processo di selezione che ha dato scarsi risultati in ragione dei criteri adottati, non dovrebbero poi scaricare le responsabilità sul solo fattore lavoro, bensì capire che quando il merito e la competenza vengono “ripagati” meno che in Uganda una parte della responsabilità, in un eventuale pessimo risultato economico, è anche loro; e che vedere gente pagata centinaia di miglia di euro proprio per il suo ruolo di responsabilità che adotta lo “scarica barile” sempre sul “lavoro” non è un bello spettacolo, stanca ed è poco costruttivo, salvo che si voglia negare il ruolo di chi siede nella stanza dei bottoni; ma a questo punto, per cosa sarebbero pagati?!

Luca Pezzotta di Economia Per I Cittadini

 


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