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Relazioni economiche internazionali, terza lezione. La globalizzazione. dagli appunti del professor Rinaldi

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relazioni internazionali

Il processo di globalizzazione dei mercati.

A partire dagli anni ’90 il commercio internazionale viene visto come il motore della crescita a seguito della liberalizzazione degli scambi e del processo di diffusione della tecnologia che hanno permesso il fenomeno del catching up da parte dei Paesi in via di sviluppo nel mercato globale.

Spingere le imprese alla ricerca di una maggiore competitività può avere un effetto positivo di stimolo all’attività di R&S e può anche facilitare una maggiore diffusione delle conoscenze tecnologiche già acquisite.

Il processo di globalizzazione dei mercati, che nell’ultimo ventennio ha avuto una rapida accelerazione, ha mutato profondamente lo scenario competitivo a livello internazionale e sta rendendo sempre più interdipendenti le economie dei vari Paesi. A causa dell’acuirsi delle pressioni concorrenziali, sono divenute sempre più complesse le strategie che le imprese possono e devono adottare nello svolgimento delle loro diverse funzioni, al fine di riuscire a competere e con successo in un mercato in continua evoluzione, sempre più ampio e integrato.

Due sono le cause scatenanti l’accelerazione di tale processo:

– la consistente e progressiva rimozione delle barriere agli scambi commerciali e agli investimenti internazionali;

– alcuni cambiamenti nelle tecnologie dei trasporti e soprattutto l’evoluzione delle tecnologie informatiche e della comunicazione (le grandi opportunità offerte dall’uso di internet e dell’ampia rete informativa World Wide Web).

A seguito della notevole riduzione delle barriere commerciali, le esportazioni mondiali di merci sono cresciute molto più velocemente della produzione mondiale: il valore del commercio mondiale è aumentato di circa il 200% negli ultimi vent’anni, mentre la produzione mondiale nello stesso periodo risulta aumentata solo del 44%.

Parecchi studiosi hanno valutato senz’altro positivamente la progressiva liberalizzazione degli scambi e degli investimenti internazionali. Questo processo è infatti ritenuto in grado di creare rilevanti opportunità per le imprese, ampliando il loro potenziale mercato di sbocco e anche le loro possibilità di scelta nell’acquisto dei materiali e altri input di migliore qualità e/o a più basso costo dai fornitori stranieri. Le imprese in un mercato sempre più integrato hanno maggiori possibilità di valutare e scegliere per la loro attività produttiva (o solo per alcune fasi della stessa) la localizzazione più efficiente in termini di bassi costi e/o migliore qualità.

Non sono mancate delle riserve a riguardo, è stata infatti criticata l’eccessiva velocità del processo di liberalizzazione, nell’assenza di adeguate regole a livello internazionale: forti riserve riguardano i fondati rischi connessi alla crescente interdipendenza fra le economie dei vari Paesi, in particolare, il rischio di una trasmissione di shock negativi (come una crisi finanziaria) da un Paese all’altro. E c’è, inoltre, il timore di più alti tassi di disoccupazione nei paesi industrializzati, a causa della crescente tendenza da parte delle imprese di tali paesi di delocalizzare parte delle loro produzioni nei paesi emergenti a bassi salari (nonché quelle con blande leggi anti-inquinamento e a tutela della salute), al fine di ridurre i costi e mantenere o accrescere così la loro competitività in termini di prezzo sul mercato internazionale.

La concorrenza dei Paesi Emergenti a bassi salari e la frammentazione internazionale del processo produttivo.

Già nel corso degli anni Novanta, sul mercato internazionale la concorrenza dei Paesi emergenti a bassi salari si era fatta sempre più pressante aggressiva, basti pensare all’eccezionale performance della Cina che è riuscita a integrarsi nell’economia mondiale e a conquistare spazi sempre più ampi, in particolare in alcuni settori (abbigliamento, apparecchiature elettriche ecc.).

La Cina grazie ad una accorta politica commerciale mirata a favorire certe produzioni, esenta dai dazi le importazioni dei componenti intermedi destinati a ulteriori trasformazioni o all’assemblaggio, e a proteggere allo stesso tempo i produttori locali gravando di dazi le importazioni dei beni finali destinati al consumo interno. Attualmente le imprese esportatrici sono anche avvantaggiate dal mantenimento della moneta cinese a un valore molto basso rispetto al dollaro (vedremo in seguito il meccanismo dei cambi).

Oltre che sui prezzi, la competitività della Cina e dei Paesi in via di sviluppo si basa su notevoli capacità nell’imitare i prodotti stranieri di successo, su un’efficiente e capillare distribuzione commerciale di punti-vendita, nonché sul forte e costante impegno per un veloce apprendimento tecnologico e manageriale.

A fronte di questa temibile concorrenza, i Paesi industrializzati hanno cercato di difendersi ridimensionando le produzioni ad alto contenuto di mano d’opera poco qualificata, e concentrandosi invece sui comparti di qualità, sulle produzione ad alto contenuto di ricerca, innovazione, creatività e quindi ad alta intensità di capitale umano. Per le imprese operanti in settori tradizionali o poco avanzati, anziché abbandonare tali settori, hanno preferito sempre più delocalizzare intere produzioni o fasi di lavorazioni all’estero cioè nei Paesi a bassi salari.

Si è assistito quindi a una frammentazione del processo produttivo a livello internazionale: all’interno di uno stesso Paese non viene più compiuto l’intero ciclo di produzione che conduce alla realizzazione del prodotto finito.

L’accentuarsi di questo fenomeno di frammentazione dei processi di produzione non può che tradursi in difficoltà ancora maggiori per quanto concerne l’individuazione dei sentieri di specializzazione dei vari Paesi.

Le fasi di lavorazione e la specializzazione dei prodotti.

Il processo di specializzazione dei vari Paesi, non più soltanto a livello di settori produttivi ma anche nelle diverse fasi di lavorazione, permette al Paese più avanzato di avere una maggiore disponibilità relativa di lavoratori qualificati e avere quindi accumulato anche una maggiore conoscenza tecnologica, mentre al Paese molto meno avanzato permette di contare su una maggiore disponibilità relativa di lavoratori poco qualificati e a basso costo. Di conseguenza, in presenza di fasi di lavorazione a diversa intensità d’uso dei suddetti fattori, così come la specializzazione internazionale a livello di settori produttivi, anche quella nelle fasi di lavorazione sarà probabilmente determinata dalle diverse dotazioni fattoriali.

La concreta capacità da parte delle imprese di riuscire a realizzare esternalizzazioni produttive di successo (in grado di accrescere le quote di mercato e i profitti), sicuramente dipende molto da alcune importanti caratteristiche del fattore organizzativo- imprenditoriale e cioè dal background culturale e professionale di imprenditori e dirigenti e dalla conseguente mentalità manageriale, più o meno aperta e motivata a conseguire vantaggi competitivi a lungo termine (piuttosto che a breve), puntando cioè non solo sulla riduzione dei costi ma anche sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione.

A livello internazionale, il vantaggio competitivo di una impresa dipende molto dalle competenze “distintive” acquisite via via in una o più molteplici attività di creazione del valore all’interno della stessa azienda (produzione, R&S, logistica, sistemi informativi, marketing, risorse umane ecc.).

Pertanto, le imprese in possesso di specifiche competenze tra le suddette, possono esternalizzare con successo le attività produttive specie nei Paesi dove non ci sono assolutamente concorrenti in grado di competere con una efficienza simile.

Per le imprese di un Paese industrializzato è evidente che la scelta di esternalizzare una o più fasi di lavorazione in un Paese a bassi salari non può prescindere da un’attenta valutazione congiunta sia delle maggiori opportunità e prospettive di guadagno, sia dei maggiori rischi inevitabilmente connessi con gli investimenti diretti all’estero, se non altro a causa della minore conoscenza dei mercati stranieri.

Oltre ai rischi legati a eventuali mutamenti politico-istituzionali, a significativi cambiamenti negli indirizzi di politica economica, nelle leggi e altro ancora, non è da sottovalutare l’eventuale effetto di ritorno negativo che prima o poi potrebbe scaturire per via dell’incontrollabile diffusione di conoscenze tecniche e know-how nel Paese destinatario e che potrebbe anche finire col tradursi in una aggressiva concorrenza, specie a opera di nuove imprese locali gestite da ex dipendenti, più di altri chiaramente in grado di acquisire le competenze e le conoscenze necessarie per iniziare a operare nel settore.

La scelta di eventuali esternalizzazioni in un Paese meno avanzato è dunque una decisione molto complessa, per via della valutazione dei vantaggi derivanti dall’uso delle proprie competenze e degli specifici “punti di forza” del Paese destinatario (di solito basati sulle disponibilità fattoriali e su altre significative caratteristiche che nel loro insieme possono far sperare in buone prospettive di crescita e di profitti) e, dall’altra, gli svantaggi legati invece a specifici aspetti negativi della stessa località e più in generale alle numerose incognite e ai rischi connessi alle operazioni in questione.

Per questi motivi, una volta realizzato l’investimento all’estero, i manager necessariamente devono continuare a monitorare attentamente la situazione, al fine di poter tempestivamente adottare le strategie più appropriate per riuscire a sfruttare le nuove opportunità e cercare di evitare il più possibile eventuali cambiamenti indesiderati.

La specializzazione di prodotto.

La frammentazione del processo produttivo ha evidenziato l’esigenza di analizzare oltre le fasi di lavorazione, anche la diversità dei prodotti.

All’interno di specifiche categorie di prodotti, sia intermedi che finali, si è ritenuto opportuno analizzare la specializzazione dei vari Paesi nelle varietà di maggiore o minore “qualità” (Within-Product Specialization).

Anche all’interno di ogni distinta categoria di prodotti, si può infatti rilevare che i Paesi producono, esportano e importano varietà di merci differenti e a prezzi diversi. La diversa qualità in termini di contenuto innovativo, maggiori prestazioni, migliore funzionalità comporta ovviamente un diverso valore i termini di prezzo.

Non potendo distinguere le varietà di maggiore o minore qualità dai dati statistici, il modo migliore è di guardare ai rispettivi prezzi unitari delle esportazioni e/o delle importazioni. Chiaramente dietro la differenza di prezzo non è detto che ci sia sempre e soltanto una differenza di qualità. Sicuramente i consumatori dei Paesi ricchi preferiscono spendere il loro reddito nell’acquisto dei prodotti di qualità e, proprio per questo, i Paesi in questione tendono a produrre (e quindi a esportare) ma anche a consumare (e importare) allo stesso tempo soprattutto beni di qualità, e quindi tendono a commerciare in maggior misura con altri Paesi ricchi specie se con un livello di reddito pro-capite molto simile.

Dall’analisi di come variano i prezzi unitari a seconda delle dotazioni fattoriali e delle tecniche di produzione caratterizzanti i vari Paesi esportatori, il risultato è che:

– i più alti prezzi unitari delle importazioni sono rilevabili per le varietà provenienti dai Paesi avanzati che presentano una maggiore disponibilità relativa di capitale e lavoro qualificato e che utilizzano tecniche di produzione ad alta intensità di capitale (fisico e umano);

– con il passare del tempo, i prezzi unitari delle importazioni provenienti dai Paesi avanzati tendono ad aumentare all’aumentare della disponibilità relativa di capitale fisico e umano, rispetto ai prezzi unitari delle importazioni provenienti invece dai Paesi a bassi salari.

Il fatto che i più elevati prezzi unitari rilevati dall’analisi si riferiscono proprio ai prodotti realizzati nei Paesi avanzati, induce a pensare che dietro la differenza di prezzo ci sia una differenza in termini di qualità. In altri termini, all’interno di ogni categoria di prodotti differenziati, mentre i Paesi a bassi salari producono ed esportano le varietà di modesta qualità e a basso prezzo, i Paesi avanzati (ad alti salari) utilizzano il loro vantaggio comparato (in termini di maggiore disponibilità di capitale, conoscenza tecnologica e lavoro qualificato) per produrre ed esportare le varietà di migliore qualità, basando quindi la loro competitività su rilevanti fattori non di prezzo.

Quindi, esportando beni di qualità superiore, i Paesi avanzati sono in grado di esportare maggiori quantità senza abbassare i prezzi delle loro varietà sul mercato mondiale. Chiaramente poi, allo scopo di mantenere o acquisire competitività sui mercati internazionali nei prodotti di qualità, le imprese dei paesi avanzati, nell’esigenza di tutelarsi contro le imitazioni dei loro prodotti da parte dei concorrenti a più bassi salari, dovranno investire in innovazioni, svolgere attività di ricerca per il miglioramento della qualità dei loro prodotti, al fine di acquisire o mantenere nel tempo e accrescere la loro competitività nei prodotti di qualità.

Per i Paesi in via di sviluppo, la concreta possibilità di riuscire a beneficiare delle grandi opportunità offerte dall’apertura delle loro economie (specie in presenza di intensi scambi con i Paesi più avanzati), dipende molto dalla loro maggiore o minore capacità di assimilazione delle conoscenze tecnologiche provenienti dall’esterno e dalla loro abilità nel fare buon uso delle stesse, attivandosi in ulteriori attività di ricerca.

Indagini ancora più accurate mostrano che all’interno di uno stesso Paese (e spesso anche all’interno di uno stesso settore) le imprese non sono omogenee, bensì eterogenee: ciò dimostra che solo alcune imprese riescono ad esportare le loro produzioni.

Come mai?

L’esportazione non è senza costi: ci sono infatti dei costi fissi, relativi all’acquisizione di informazioni sui mercati stranieri, alle strategie di marketing, alla creazione di adeguati canali per la distribuzione ecc.

E non tutte le imprese di un Paese sono in grado o sono disposte ad affrontare tali costi. Molto dipende dalle dimensioni, oltre che dalle specifiche produzioni realizzate, dalla distanza geografica rispetto ai possibili Paesi destinatari, dall’esistenza o meno di reti di imprese, dal tipo di struttura proprietaria (a controllo estero o nazionale) ecc.

Ben vengano dunque attente analisi volte a verificare i punti di forza delle imprese che esportano con successo rispetto a imprese dello stesso settore che si limitano al mercato nazionale.

Oltre alla eterogeneità suindicata, v’è poi da considerare l’influenza di un rilevante elemento soggettivo, cioè la “mentalità manageriale”, più o meno aperta all’innovazione, dalla cui diversa mentalità scaturisce la maggiore o minore disponibilità delle imprese a impegnarsi in ricerche mirate al miglioramento sia del contenuto qualitativo dei beni prodotti, sia lo svolgimento delle altre funzioni aziendali al fine di accrescere l’efficienza a tutti i livelli e quindi la competitività e le successive potenzialità di sviluppo.

All’interno di un Paese avanzato, le imprese più aperte all’innovazione e alla ricerca di miglioramenti appaiono senz’altro quelle più idonee a operare con successo sul mercato internazionale (quindi le più propense a esportare) grazie alla maggiore disponibilità a investire nelle ricerca utilizzando risorse umane altamente qualificate e dotandosi anche di sofisticate strutture informatiche di ultima generazione.


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