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Politica

Regionali 2025: il Trionfo del “Partito dei pochi”. La Democrazia si svuota, restano solo le tifoserie e gli interessi

Regionali 2025: trionfano i favoriti ma crolla l’affluenza. Meno del 44% alle urne: vince solo chi ha interessi diretti. Ecco perché la democrazia si sta svuotando.

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Se c’è una lezione che l’economista – ma anche il semplice cittadino dotato di buon senso – deve trarre dalla tornata elettorale del 23 e 24 novembre 2025, non è tanto chi ha vinto o chi ha perso nelle urne. Quello, diciamolo con una punta di cinismo, era scritto nelle stelle e nei sondaggi da mesi. La vera notizia, quella che dovrebbe far tremare i polsi a chi si occupa di res publica e non solo di occupazione di poltrone, è che gli italiani hanno smesso di votare. O meglio, ha smesso di votare chi non ha un interesse diretto, tangibile, immediato nel mantenimento dello status quo.

Siamo di fronte a elezioni tecnicamente “noiose”, prive di quel pathos del cambiamento che spinge le masse ai seggi. Ha vinto chi doveva vincere. In Veneto il centrodestra ha cambiato il volto (da Zaia a Stefani) ma non la sostanza, e conferma la Lega su FdI; in Campania e Puglia il centrosinistra ha conservato i suoi feudi con Fico e Decaro, in una continuità che sa di rendita di posizione più che di nuova visione politica, con solo una cessione di potere dal PD al M5S . Ma dietro i sorrisi di circostanza dei vincitori e le analisi consolatorie dei vinti, si staglia l’ombra gigantesca dell’astensione.

Il crollo dei numeri: un’analisi impietosa

I dati sono impietosi e certificano una disaffezione che non è più apatia, ma una scelta razionale di distacco.

  • Media Complessiva: Solo il 43,65% degli aventi diritto si è recato alle urne nelle tre regioni chiamate al voto. Un crollo verticale rispetto al 57,60% della tornata precedente.
  • Veneto: Una regione storicamente civica e partecipativa crolla al 44,65%. Un record storico negativo che segnala come, persino nel ricco Nord-Est, il legame tra amministrazione e cittadino si sia sfilacciato.
  • Campania: L’affluenza si ferma al 44,08%.
  • Puglia: Il dato peggiore, un misero 41,83%, con un calo superiore ai 14 punti rispetto al 2020.

Siamo di fronte a un Paese diviso a metà, ma non tra destra e sinistra, bensì tra chi partecipa al rito democratico e chi, la maggioranza assoluta, se ne chiama fuori.

La Democrazia degli “interessati”

Perché questo crollo? Un’analisi keynesiana “sociale” suggerirebbe che quando l’investimento (il tempo per andare a votare) non promette alcun ritorno marginale (un cambiamento reale delle condizioni di vita), l’attore razionale si astiene. Ma c’è di più. L’impressione netta è che il voto sia diventato un affare privato per cerchie ristrette. Vota chi ha un interesse. Vota il funzionario, l’appaltatore, il parente del candidato, il beneficiario di un sussidio locale, il militante della tifoseria organizzata. Vota chi è parte del “sistema”. Chi è fuori da queste logiche di scambio – diretto o indiretto – percepisce la politica come un rumore di fondo, ininfluente sulle dinamiche reali dell’economia, schiacciata tra vincoli europei e burocrazia nazionale.

La conferma del potere uscente o delle sue emanazioni dirette (Stefani per Zaia, Fico in continuità con l’asse Manfredi-M5S, Decaro dopo Emiliano) non è segno di buon governo trionfante, ma della capacità delle macchine amministrative di mobilitare i propri portatori d’interesse mentre il resto della popolazione resta a guardare, o meglio, guarda altrove.

Il paradosso del vincitore

I vincitori festeggiano, ma su cosa regnano?

  • Alberto Stefani (Lega) in Veneto supera il 64% , trainato da un Carroccio che torna ai fasti delle origini grazie all’effetto traino di Luca Zaia. Ma è un 64% di meno della metà degli elettori. È il “Sindaco dei Veneti”, sì, ma di una minoranza di essi.
  • Roberto Fico (Campo Largo) in Campania vince con oltre il 60% , ma in un contesto dove l’astensionismo è il vero partito di maggioranza e dove la vittoria è frutto di una somma algebrica di potentati locali (da De Luca a Manfredi).
  • Antonio Decaro (Centrosinistra) in Puglia trionfa con il 64%, ma su macerie partecipative.

La sinistra esulta per aver tenuto il Sud, la destra per aver blindato il Nord. Ma è una vittoria di Pirro per la democrazia rappresentativa. Se il governo del popolo diventa l’espressione di una minoranza organizzata, la legittimità sostanziale delle decisioni future, specialmente quelle economiche impopolari che potrebbero arrivare, sarà fragilissima.

Conclusioni: il vuoto pneumatico

Queste elezioni regionali del 2025 ci consegnano la fotografia di un Paese stanco. Le tifoserie si scambiano accuse, i leader nazionali (Meloni, Schlein, Conte, Salvini) cercano di intestarsi risultati che sono frutto più di dinamiche locali che di vento nazionale. Salvini rivendica la salute della Lega , Schlein parla di “riscatto che parte dal Sud”, ma la verità è nei numeri che non si vedono nei grafici a torta dei TG: quel 56% di italiani che non ha votato.

Siamo di fronte alla “banale conferma del potere”, un potere che si auto-riproduce in un vuoto pneumatico di passione civile. Senza uno shock, senza una capacità di tornare a incidere sulla carne viva dell’economia reale e delle speranze dei cittadini, la democrazia rischia di diventare un club esclusivo. E come tutti i club esclusivi, alla fine, rischia di diventare insopportabile per chi è rimasto fuori alla porta.

Domande e risposte

Perché l’affluenza è crollata così drasticamente in regioni storicamente partecipative come il Veneto? Il crollo in Veneto, passato dal 61% a meno del 45%, suggerisce una rottura del patto fiduciario tra elettori e istituzioni, persino nelle roccaforti del civismo. Oltre alla fisiologica stanchezza elettorale, pesa la percezione di un voto “inutile” dato l’esito scontato a favore della Lega e la mancanza di una vera contesa. Inoltre, l’assenza diretta di Luca Zaia come candidato presidente (nonostante il suo supporto) potrebbe aver disincentivato quella fetta di elettorato legata alla figura carismatica più che al partito. È il sintomo di un benessere che non si sente più garantito dalla politica.

Questi risultati possono considerarsi un test nazionale per il governo Meloni o per l’opposizione? Nonostante i tentativi di Schlein di leggere una “rimonta” al Sud e di Salvini di celebrare la “buona salute” della Lega, il voto ha una valenza quasi esclusivamente locale. La vittoria del centrosinistra al Sud è frutto di rendite di potere consolidate (i sistemi di De Luca ed Emiliano) più che di un nuovo vento nazionale. Simmetricamente, il Veneto resta un feudo leghista impermeabile. Con un’astensione sopra il 56%, mancano i numeri per definire questo voto un vero sondaggio nazionale; è piuttosto la conferma che le macchine amministrative locali funzionano ancora bene nel mobilitare i propri portatori d’interesse.

Che impatto ha questo tipo di vittoria sulla legittimità delle decisioni future dei governatori? Sul piano legale, la legittimità è piena. Sul piano sostanziale, è fortemente indebolita. Governatori come Stefani o Decaro, pur con percentuali “bulgare” sui voti validi (oltre il 64%), rappresentano di fatto meno di un cittadino su quattro. Questo crea un problema di accountability: quando dovranno prendere decisioni impopolari (su sanità, infrastrutture o tasse), non potranno fare appello a un mandato popolare vasto, ma dovranno rispondere principalmente alle corporazioni e ai gruppi di interesse che li hanno eletti. È il rischio di una “democrazia dei pochi” che lascia la maggioranza silenziosa sempre più frustrata.

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